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MessaggioInviato: 11 giu 2010, 13:58 
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Cesareo, docente di Socilogia generale alla Cattolica di Milano
«Per una buona integrazione
assicuriamone la sostenibilità»

di Stefano Basilico

Vincenzo Cesareo è professore ordinario di Sociologia generale all’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e segretario generale della fondazione Ismu, Iniziative e studi sulla multietnicità.La posizione sulla cittadinanza del presidente Fini è catalogata da molti come “cittadinanza facile”, mentre sarà in realtà più selettiva con la presenza di un esame da superare con profitto e aiuterà soprattutto gli immigrati di seconda generazione. Qual è la sua proposta sulla cittadinanza?
Credo che ci voglia una premessa: noi siamo stati un paese di emigrazione e, quindi, coerentemente con quel tipo di connotazione, prevaleva lo ius sanguinis. La storia si modifica e noi da un po’ di tempo siamo diventati un paese di immigrazione pertanto bisogna porsi il problema dello ius soli che prima non esisteva. Questo è il punto di partenza per configurare le nostre soluzioni. Ora, in commissione Affari Costituzionali, abbiamo un testo unificato - il Sarubbi-Granata - legato a una vecchia concezione dell’immigrazione. Credo che in Italia ci si debba muovere con molta prudenza, ma in una prospettiva comprensiva dello ius soli, anche perché quasi un milione di minori stranieri, dei quali oltre la metà nati e cresciuti in Italia, si sentono italiani, e vivono da stranieri nel paese in cui sono nati. Dobbiamo uscire quindi da certe posizioni ideologiche che non ci aiutano a decifrare la realtà e a trovare soluzioni adeguate. Detto questo, lo scenario è profondamente mutato, e ci sono 5 milioni di stranieri nel nostro paese, di cui un milione minori. Un altro dato importante è che pur nel regime attuale cresce la richiesta e la concessione di cittadinanza. Nel 2009 sono stati emanati oltre 40mila decreti di concessione, col vecchio sistema, e sono triplicati nel giro di pochi anni. E se prima le concessioni erano legate generalmente ai matrimoni, proprio in quest’anno queste vengono superate da quelle per residenza. Secondo lei la cittadinanza favorisce direttamente l’integrazione o non ci può essere la prima senza la seconda?
È un po’ come il dilemma sulla nascita dell’uovo o della gallina. L’integrazione non si compie per decreto. Ci possono essere fattori che la facilitano, altri che la ostacolano, ma è un processo che dura nel tempo. Il nesso c’è ma non è così diretto, e l’abbiamo verificato in tanti modi. Se la cittadinanza viene data a prescindere dall’integrazione, questa non si sviluppa, perché si innerva in tante dimensioni, economica, sociale, culturale, politica e dura nel tempo, anzi, non finisce mai. Il rapporto dunque è da valutare con prudenza. Da una ricerca dell’osservatorio regionale lombardo per l’integrazione abbiamo chiesto agli intervistati i vantaggi che avrebbero preferito ottenere con la cittadinanza: al primo posto c’è la mobilità, poi la diminuzione dei problemi burocratici, infine la possibilità di ottenere i diritti politici. Le esigenze di cittadinanza sono dunque di tipo strumentale. Una nostra simulazione prevede un milione di richieste di cittadinanza per il 2010, e via crescendo negli anni successivi. Di fronte a una situazione del genere, un tema di questo tipo va affrontato con molta cautela, tuttavia cercando di declinare all’italiana lo ius soli. Chiaramente bisogna apprendere la lingua, il contesto, la cultura, mettendo dei vincoli di entrata finalizzati ad aiutare il processo di integrazione. Per questo abbiamo più volte proposto con rilievo simbolico il giuramento.Recenti casi di cronaca dimostrano che l’integrazione in Italia è difficile. Quale sarebbe la ricetta migliore, seguire un modello già presente in Europa, o l’individuazione di una via tutta italiana?
Noi oggi assistiamo al fallimento dei modelli presenti sulla scena mondiale. Sia l’assimilazionismo rigido alla francese, che il modello multiculturalista aperto olandese e canadese, o quello inglese col riconoscimento pubblico delle culture hanno presentato dei limiti e si sono dimostrati inadeguate alla prova dei fatti. Vedrei piuttosto uno sforzo per portare avanti un discorso di riconoscimento delle altre culture, conciliabili col paese in cui si vive. Lavorando al concetto di integrazione insisto sempre sul rispetto reciproco ma con due paletti: i diritti inalienabili della persona e il regime istituzionale democratico. Possiamo e dobbiamo riconoscere le identità culturali diverse dalla nostra a condizione che non ledano questi due elementi. Credo che non possiamo mettere in pericolo il nostro percorso umano, e proprio per questo vadano applicati questi due vincoli, nel rispetto delle differenze e ponendo al centro l’accoglienza e i diritti universali della persona. È chiaro che non possiamo consentire che un padre uccida la figlia per motivi religiosi o che un uomo sposi tre donne. Perciò non mi concentrerei sui modelli da recepire in maniera miope, dato che c’è un retroterra culturale differente in ogni paese. Qualche mese fa il presidente Berlusconi disse che non avrebbe mai auspicato un’Italia multietnica. Lei crede che la multietnicità sia un valore, che sia raggiungibile in Italia e che potrebbe minare o rinforzare l’unità nazionale?
Che ci piaccia o no l’Italia è già multietnica, e lo è sempre stata con la presenza di minoranze linguistiche. Ora è ancora più evidente questo fatto, dato che ci avviciniamo al 10% di immigrati sulla popolazione totale. Bisogna gestire questo processo perché sia positivo, ma va governato con attenzione. Sotto il profilo demografico è evidente che sia una ricchezza, dato il ricambio portato dagli immigrati. Sotto quello culturale dipende tutto dalla gestione del processo. Mi auguro che se si assume una modalità di integrazione come quella di cui parlavo prima potremmo avere anche dei riscontri positivi. Va scongiurato tuttavia il rischio di un etnocentrismo alla rovescia. Dobbiamo stare attenti a mantenere la nostra identità nel confronto dialogico, sereno e rispettoso con gli altri. Quello che a volte mi sembra di cogliere è che noi sottovalutiamo la nostra identità finendo per andare allo sbando, ed è un rischio. Se invece andiamo all’incontro con l’altro nel rispetto della persona, della cultura, ma forti della nostra identità può avvenire un incontro fecondo. Non si possono mai fare delle generalizzazioni, se ne fanno spesso, ma non servono ad approfondire le analisi e trovare soluzioni. L’immigrazione ormai viene per la maggior parte dal Nord Africa o dall’Est Europa ed è perciò necessaria una gestione di flussi a livello europeo, dal momento che, come dice il ministro Frattini, Italia e Spagna sono porte dell’Europa sul Mediterraneo, e perciò tutto il continente si dovrebbe sobbarcare il fenomeno dell’immigrazione. Cosa ne pensa?
La fondazione Ismu da anni nei suoi rapporti insiste sul fatto che il fenomeno migratorio vada gestito a livello europeo. Personalmente reputo che i flussi vadano gestiti per ragionare in termini di sostenibilità: Se noi accogliamo quantità di persone che poi non riusciamo a inserire e ad accogliere nascono conflitti, tensioni, razzismo. Non siamo in grado di stabilire una soglia di sostenibilità in astratto, però non possiamo non mettere in agenda questo problema. Se non si ragiona in questi termini, ma ad esempio in termini un po’ miopi di esigenze di forza lavoro, facendo dunque un ragionamento sull’immigrazione in termini di fabbisogno, non otterremo alcun risultato positivo. Dobbiamo invece tener conto di tutto quello che comporta la presenza dell’immigrato, in termini di welfare, di scuola, di abitazioni. La sostenibilità non è solo un fatto numerico di sopportabilità di questi flussi migratori, ma delle implicazioni che, se vogliamo fare una buona integrazione, dobbiamo assicurare. Non possiamo pensare all’immigrato come forza lavoro di giorno che scompare di notte. 11 giugno 2010


Fonte: http://www.ffwebmagazine.it/ffw/page.as ... te_Arti=39


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