Questo l'intervento pubblicato nella stesso numero di Metropoli dove sono riportati gli articoli di cui sopra:
Cita:
Fini: passaporto a chi cresce qui
Immigrazione, ovviamente legale, può fare rima sia con integrazione sia, all'opposto, con emarginazione. La prima parola designa un traguardo possibile. La seconda una piaga da curare. La prima prospettiva corrisponde a una grande sfida che le istituzioni e la società hanno il dovere, anzi l'obbligo, di vincere. La seconda è il risultato di una deriva o, peggio ancora, di una pseudocultura che può silenziosamente prevalere nell'inerzia, nella superficialità e, soprattutto, nella paura. Una cosa è certa: la nostra società tra qualche decennio, forse tra meno di un decennio, forse già da ora ï¾–e non ce ne siamo ancora accorti -- , questa nostra società, non sarà più la stessa. E non è difficile capire perché. Viviamo in un'epoca di imponenti migrazioni, non solo di persone, ma di idee e di capitali. Di capitali umani e culturali oltre che economici. Questo significa che non possiamo rimanere fermi. Dobbiamo prevedere e guidare i processi sociali. E' proprio questa la sfida dell'integrazione. L'alternativa? Non c'è. L'emarginazione non è un'alternativa: è una sconfitta. Una sconfitta per tutti, per gli italiani non meno che per gli immigrati: l'emarginazione porta con sé la discriminazione e, se diventa cronica e diffusa, è fattore di disgregazione sociale. Questo discorso ï¾– è superfluo rilevarlo ï¾– è altra cosa rispetto alla necessità di fronteggiare l'emergenza contrastando la clandestinità e l'illegalità. Ma ritengo che una politica lungimirante debba guardare al di là dell'emergenza e cominciare a lavorare a un progetto di società più aperta, più evolutiva e più libera. Prima di chiarire che cosa è da intendere per integrazione è bene stabilire che cosa può significare nell'Italia di oggi il concetto di emarginazione-discriminazione. Non occorre cercare i modelli nel Sudafrica del tempo di Botha e neppure nello Stato americano del Mississippi degli anni Sessanta. Basta andare a Castel Volturno, dove qualche mese fa la camorra ha compiuto una strage di immigrati. Quel caso terribile ha scoperchiato la botola di un degrado spaventoso, fatto di sfruttamento, di diritti negati, di illegalità diffusa. Caso limite? Non è una risposta accettabile. E non corrisponde nemmeno al vero. Perché tanti "casi limite" sono presenti, anche se in forma meno grave, ma comunque preoccupante, nelle periferie delle nostre città e in tanti territori di quella che un tempo si chiamava "Italia profonda". La discriminazione è in molti casi una condizione di fatto. E viene dal lavoro nero e dai servizi sociali assenti. La mancata scolarizzazione dei bambini, soprattutto quando questi vengono mandati a chiedere l'elemosina, è una delle situazioni più dolorose. C'è poi da combattere un'altra forma di emarginazione, anzi di autoemarginazione. E' la tendenza all'isolamento sociale e culturale che agisce in una parte delle comunità di stranieri. E' una pulsione insidiosa e può essere favorita dal "politically correct" più bigotto. Penso al caso di quegli insegnanti che non hanno fatto partecipare i loro alunni alle celebrazioni dello scorso 4 Novembre con l'incredibile motivazione che l'omaggio alla bandiera tricolore avrebbe offeso la sensibilità degli scolari immigrati o a quello, non meno sconcertante, di un professore che ha rimosso il Crocifisso dalla parete dell'aula dell'Istituto dove insegna. Il multiculturalismo inteso in senso dogmatico rischia di congelare lo straniero nella sua identità d'origine limitandone le possibilità di incontro e di dialogo. Può anche nascondere in sé il retropensiero, autodenigratorio, che la nostra cultura di Paese ospitante rappresenti un fattore di contaminazione e di aggressione. Il pericolo è quello di produrre alla fine un "melting pot" fatto di enclaves etniche chiuse e autoreferenziali. Quella che è stata definita "Londonistan" non rappresenta davvero un'esperienza da prendere a modello. Il nostro obiettivo deve essere quello di definire una via italiana all'integrazione innovativa e anticipatrice. Un modello che faccia tesoro delle esperienze europee e che ben si inserisca nel quadro dei valori sanciti dall'Ue. Questo richiamo ai valori ci aiuta a capire che l'integrazione non va intesa in senso meramente burocratico e formale. Non implica soltanto la coesistenza di gruppi diversi sotto una stessa legge, ma qualcosa di più: la condivisione dei valori di fondo della nostra società, innanzi tutto quelli universali della dignità e della libertà della persona. Un esempio tragicamente eclatante della differenza che passa tra integrazione effettiva e integrazione apparente ce lo fornisce la vicenda di Hina Saleem, la ragazza pakistana uccisa dal padre due anni fa a Brescia. Quel padre assassino lavorava e rispettava la legge. Però non ha esitato a sgozzare la figlia per il solo fatto che questa voleva vivere secondo il sistema di vita occidentale. Serve a poco seguire formalmente le regole se poi si obbedisce, nel profondo, alla sola legge della Sharia. Ritengo che una vera integrazione possa essere favorita da una nuova legge sulla cittadinanza, destinata ovviamente a quegli immigrati che si sentano realmente coinvolti nella vita della nostra società. Penso in particolare a quei bambini che già studiano nelle nostre scuole. Occorre già da oggi preparare il loro futuro di nuovi italiani. Anche il voto alle amministrative potrebbe favorire l'integrazione, ma solo nella prospettiva della nuova cittadinanza e solo se è chiaro a tutti il principio che ai diritti corrispondono i doveri. Al dunque, la sfida dell'integrazione rappresenta un profilo non secondario della più generale sfida a pensare e a costruire l'Italia del XXI secolo. L'obiettivo deve essere quello di un'Italia che non abbia paura di ridefinirsi nelle nuove situazioni storiche. Un'Italia dinamica ed evolutiva. Un'Italia orgogliosa delle proprie tradizioni, ma non ripiegata su una cultura chiusa. La possiamo chiamare la grande sfida dell'identità. E la possiamo vincere con politiche lungimiranti, ispirate a visioni di alto profilo. (l'autore è presidente della Camera dei deputati) (21 dicembre 2008)