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MessaggioInviato: 26 nov 2009, 00:46 
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Qualche anno fa, mentre ritornavo in Inghilterra dopo un breve viaggio all'estero (all'epoca ero direttore del Trinity College di Cambridge), il funzionario dell'immigrazione all'aeroporto di Heathrow, dopo aver accuratamente esaminato il mio passaporto indiano, mi pose un quesito filosofico di una certa complessità. Osservando il mio indirizzo sul formulario per l'ufficio immigrazione (residenza del direttore, Trinity College, Cambridge), mi chiese se il direttore, di cui evidentemente ero ospite, fosse un mio caro amico. Dovetti soffermarmi a pensare, perché non ero del tutto sicuro di poter affermare di essere amico di me stesso. Dopo aver riflettuto, arrivai alla conclusione che la risposta doveva essere sì, perché mi capita spesso di trattare me stesso in modo discretamente amichevole, e quando dico qualche sciocchezza capisco immediatamente che, con amici come me, non ho bisogno di nemici.
Dal momento che tutte queste elucubrazioni avevano richiesto del tempo, il funzionario dell'immigrazione volle sapere precisamente per quale motivo stessi esitando, e più nello specifico, se la mia permanenza in Gran Bretagna fosse viziata da qualche irregolarità.
La questione pratica alla fine si risolse, ma la conversazione servì a ricordarmi, se mai ce ne fosse stato bisogno, che l'identità può essere una faccenda complicata. Autoconvincersi che un oggetto è identico a se stesso non richiede ovviamente grande fatica. Ludwig Wittgenstein, il grande filosofo fece notare una volta che <<non s'è esempio migliore di proposizione inutile>> del dire che qualcosa è identico a se stesso, ma proseguiva affermando che la suddetta proposizione, per quanto completamente inutile, è tuttavia <<collegata>> a un certo ruolo svolto dall'immaginazione.
Se spostiamo la nostra attenzione dal concetto di essere identici a se stessi a quello di condividere un'identità con altri membri di un determinato gruppo (che è la forma che assume molto spesso l'idea di identità sociale), la complessità aumenta. Anzi, molte questioni politiche e sociali contemporanee ruotano intorno a rivendicazioni conflittuali di identità disparate che coinvolgono gruppi diversi, poiché la concezione dell'identità influenza, sotto molti e diversi aspetti, il nostro pensiero e le nostre azioni.
Gli eventi violenti e le atrocità degli ultimi anni hanno portato un periodo di terribile confusione e spaventosi conflitti. La politica dello scontro globale è spesso vista come un corollario delle divisioni religiose o culturali esistenti nel mondo. Il mondo, anzi, è visto sempre di più, quanto meno implicitamente, come una federazione di religioni o di civiltà, ignorando così tutti gli altri modi in cui gli esseri umani considerano se stessi. All'origine di questa idea sta la curiosa supposizione che l'unico modo per suddividere in categorie gli abitanti del pianeta sia sulla base di qualche sistema di ripartizione unico e sovrastante. La suddivisione della popolazione mondiale secondo le civiltà o secondo le religioni produce un approccio che definirei <<solitarista>> all'identità umana, approccio che considera gli esseri umani membri soltanto di un gruppo ben preciso (definito in questo caso dalla civiltà o dalla religione, in contrapposizione con la rilevanza un tempo attribuita alla nazionalità o alla classe sociale).
L'approccio solitarista può essere un buon metodo per interpretare in modo sbagliato praticamente qualsiasi abitante del pianeta. Nella nostra vita quotidiana noi ci consideriamo membri di una serie di gruppi: facciamo parte di tutti questi gruppi. La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz e profondamente convinta che esistano esseri intelligenti nello spazio con cui dobbiamo cercare di comunicare al più presto (preferibilmente in inglese). Ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene simultaneamente, le conferisce una determinata identità. Nessuna di essere può essere considerata l'unica identità o l'unica categoria di appartenenza della persona. L'inaggirabile natura plurale delle nostre identità ci costringe a prendere delle decisioni sull'importanza relativa delle nostre diverse associazioni e affiliazioni in ogni contesto specifico.
Un ruolo centrale nella vita di un essere umano, quindi, è occupato dalle responsabilità legate alle scelte razionali. Per contro, a promuovere la violenza è la coltivazione di un sentimento di inevitabilità riguardo a una qualche presunta identità unica - spesso belligerante - che noi possederemmo e che apparentemente pretende molto da noi (spesso cose del genere più sgradevole). L'imposizione di una presunta identità unica spesso è una componente fondamentale di quell'arte marziale che consiste nel fomentare conflitti settari.
Sfortunatamente, molti tentativi benintenzionati di mettere un freno a questa violenza sono spesso menomati dalla percezione di un un'assenza di possibilità di scelta riguardo alle nostre identità, e questo può rendere molto più difficile sconfiggere la violenza. Quando le prospettive di buoni rapporti tra esseri umani diversi sono viste (come sempre più spesso accade) principalmente in termini di <<amicizia tra civiltà>> o di <<dialogo tra gruppi religiosi>, o di <<relazioni amichevoli tra comunità diverse>> (ignorando i moltissimi, diversi modi in cui gli individui si relazionano fra di loro), i progetti per la pace vengono subordinati a un approccio che <<miniaturizza>> gli esseri umani.
E' la nostra comune appartenenza al genere umano ad essere messa gravemente in discussione ogni volta che le innumerevoli divisioni esistenti nel mondo vengono unificate in un sistema di classificazione spacciato per dominante, che suddivide le persone sulla base della religione, della comunità, della cultura, della nazione, della civiltà (trattando ognuno di questi criteri come unico criterio valido nel contesto di quel particolare approccio alla guerra e alla pace). Il mondo suddiviso secondo un unico criterio di ripartizione è molto più conflittuale dell'universo di categorie plurali e distinte che plasma il mondo in cui viviamo. Un'immagine del genere non contrasta soltanto con la buona vecchia convinzione che <<noi esseri umani siamo più o meno uguali>> (che di questi tempi viene ridicolizzata - non del tutto a sproposito - alla stregua di un'emerita stupidaggine), ma anche con l'idea meno dibattuta ma molto più plausibile, che siamo diversamente differenti. La speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede in gran parte in una comprensione più chiara della pluralità dell'identità umana, e nel riconoscimento che tali pluralità sono trasversali e rappresentano un antidoto a una separazione netta lungo una linea divisoria fortificata e impenetrabile.
Non sono solo le cattive intenzioni a contribuire al caos e alle atrocità che vediamo intorno a noi, ma anche la confusione teorica. L'illusione del destino, in particolare quando è legata a determinate identità uniche o altro (con le relative, presunte implicazioni), alimenta la violenza, sia attraverso le omissioni che attraverso gli atti. Dobbiamo avere piena consapevolezza di possedere molte e distinte affiliazioni, e di poter interagire con ognuna di esse i molti e diversi modi (qualunque cosa dicano gli istigatori e i loro sovraeccitati avversari). Abbiamo il margine di manovra per prendere decisioni sulle nostre priorità.
Trascurare la pluralità delle nostre affiliazioni e le necessità di una scelta razionale rende più cupo il mondo in cui viviamo. Ci spinge nella direzione delle terrificanti prospettive dipinte da Matthew Arnold in Dover Beach:

And we are here as on a darkling plain
Swept with confused alarms of struggle and flight,
Where ignorant armies clash by Night.


Possiamo fare meglio di così.


Tratto da: Amartya Sen - Identità e violenza (prologo)

http://en.wikipedia.org/wiki/Amartya_Sen

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MessaggioInviato: 26 nov 2009, 00:48 
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La prossima volta vi trascrivo un brano dal titolo: "Convincere gli altri": parla del nostro lavoro come G2 8)

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MessaggioInviato: 02 dic 2009, 19:27 
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si che bello !! io lo adoro Sen !! :D


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MessaggioInviato: 05 dic 2009, 21:59 
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Convincere gli altri

Anche quando abbiamo le idee chiare sul modo in cui vogliamo vedere noi stessi, potrebbe tuttavia non essere facile convincere gli altri a vederci proprio in quel modo. Un individuo non di razza bianca nel Sudafrica dell'apartheid non avrebbe potuto insistere per essere trattato semplicemente come un essere umano, a prescindere dalle sue caratteristiche razziali. Sarebbe stato collocato nella categoria che lo Stato e i membri dominanti della società gli avevano riservato. La libertà di asserire la nostra identità personale può a volte risultare enormemente limitata agli occhi altrui, indipendentemente da come noi stessi ci vediamo. Anzi, in certi casi potremmo addirittura non essere del tutto consapevoli del modo in cui gli altri ci identificano, che può differire dalla percezione che abbiamo di noi stessi. Una vecchia storiella italiana – degli anni Venti, quando il fascismo vedeva crescere rapidamente i suoi consensi nel paese – ci fornisce un'interessante lezione al riguardo: la storiella racconta di un reclutatore politico del partito fascista intento a cercare di convincere un contadino socialista a entrare nel partito. <<Come potrei>>, dice il potenziale iscritto, <<entrare nel vostro partito? Mio padre era socialista. Mio nonno era socialista. Non posso proprio entrare nel partito fascista>>. <<Che razza di ragionamento è?>>, risponde il reclutatore fascista, non del tutto a sproposito. <<Che cosa avresti fatto se tuo padre fosse stato un assassino e così tuo nonno? Che cosa avresti fatto in questo caso?>>. <<Ah, in questo caso>>, replica il contadino, <<sarei entrato sicuramente nel partito fascista>>.
Questo potrebbe essere un caso di attribuzione di identità piuttosto ragionevole, persino benigno, ma in molti casi l'attribuzione va di pari passo con la denigrazione, che è usata per incitare alla violenza contro la persona vilipesa. <<L'ebreo è un uomo>>, sosteneva Jean-Paul Sartre in L'antisemitismo, <<che gli altri uomini considerano ebreo; […] è l'antisemita che fa l'ebreo>>. Le attribuzioni assegnate possono contenere in sé due distorsioni distinte ma correlate; la rappresentazione distorta di persone appartenenti a una categoria presa di mira e l'insistenza sul fatto che quelle caratteristiche distorte siano i soli aspetti rilevanti dell'identità della persona presa di mira. Per opporsi a un'imposizione esterna, una persona può cercare di opporre resistenza all'attribuzione di determinate caratteristiche e sottolineare le altre identità che possiede, come cercava di fare Shylock, nella frenetica e brillante commedia di Shakespeare: <<Un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, membra, sensi, affetti, passioni? Non si nutre dello stesso cibo, non è ferito dalle stesse armi, non va soggetto alle stesse malattie, non si guarisce cogli stessi mezzi, non ha il freddo dello stesso inverno e il caldo della stessa estate d'un cristiano?>>.
L'asserzione della comune appartenenza al genere umano è stata uno degli elementi di resistenza contro l'attribuzione dall'esterno di identità degradanti, in diverse culture e in diversi momenti storici. Nel poema epico indiano Mahabharata, che risale a circa duemila anni fa, Bharadvaja, un interlocutore polemico, replica alla difesa del sistema delle caste pronunciata da Bhrigu (una colonna dell'ordine costituito), chiedendo: <<A me sembra che siamo tutti influenzati dal desiderio, dalla rabbia, dalla paura, dal dispiacere, dalla preoccupazione, dalla fame e dalla fatica; come possiamo dunque avere differenze di casta?>>.
La degradazione non si basa soltanto sulla rappresentazione distorta, ma anche sull'illusione di un'identità unica, che gli altri devono attribuire alla persona in questione al fine di sminuirla. <<Una volta c'era un mio io>>, ha detto Peter Sellers, l'attore inglese, in una famosa intervista, <<ma l'ho fatto rimuovere chirurgicamente>>. Una rimozione del genere non è semplice, ma altrettanto radicale è l'impianto chirurgico di un <<vero io>> da parte di altre persone, determinate a renderci diversi da ciò che pensiamo di essere. L'attribuzione organizzata di un'identità può preparare il terreno a persecuzioni e lutti.
Inoltre, anche se in particolari circostanze la gente fa fatica a convincere gli altri a riconoscere la rilevanza di identità diverse da quella messa in campo a scopi denigratori (unitamente a descrizioni distorte dell'identità attribuita), non c'è ragione di ignorare queste altre identità in circostanze diverse. Tale concetto si applica, per esempio, agli ebrei che oggi vivono in Israele rispetto a quelli che vivevano in Germania negli anni Trenta. Sarebbe una vittoria a distanza per il nazismo se le atrocità degli anni Trenta avessero precluso per sempre a un ebreo la libertà e la facoltà di invocare qualsiasi identità diversa dall'ebraismo.
Analogamente, va messa in evidenza anche l'importanza della scelta ragionata nel contrastare l'assegnazione di identità uniche e il reclutamento di combattenti da utilizzare nelle sanguinarie campagne volte a terrorizzare le vittime designate. Le campagne pensate per incanalare in un'altra direzione le identità percepite dall'individuo sono state all'origine di molte atrocità, trasformando dall'oggi al domani vecchi amici in nuovi nemici e odiosi personaggi settari in leader politici di primo piano. La necessità di dare il giusto riconoscimento al ruolo della scelta razionale nel pensiero identitario è quindi un compito al tempo stesso impegnativo e importantissimo.


Tratto da "Identità e violenza" di Amartya Sen

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