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MessaggioInviato: 22 ott 2007, 11:13 
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Dopo la sentenza della Corte di Cassazione a sfavore degli stranieri nel pubblico impiego, ecco la sentenza del Tribunale Ordinario di Bologna che invece si pronuncia a favore nella causa di un cittadino egiziano che vuole fare un dottorato di ricerca presso un'università di Bologna.


Riferimenti del procedimento: N.3083 Registro Generale 2007 Volontaria
Giurisdizione Tribunale di Bologna
Ricorrente Sig. ***** - Avv. Roberto Faure
Convenuta: Alma Mater Studiorum – Università di Bologna – Avvocatura
dello Stato
Ordinanza ex art. 44 D. Legisl. 286/1998 del 7.9.2007

*********************
IL TRIBUNALE DI BOLOGNA
SEZIONE FERIALE
in composizione monocratica nella persona della Dottoressa Maria
Cristina Borgo

esaminati gli atti e lette le difese,

ha pronunciato, a scioglimento della riserva assunta all’udienza
celebratasi in data 23 agosto 2007, la seguente

ORDINANZA

nel procedimento iscritto al N.3083 Registro Generale 2007 Volontaria
Giurisdizione

avente ad oggetto: Istanza ex art. 44 Decreto Legislativo 25 luglio
1998 n.286.



rilevato che:

con ricorso depositato in data 19 luglio 2007, il Signor ******,
cittadino egiziano, stabilmente residente sul territorio nazionale da circa
nove anni e munito di permesso di soggiorno a tempo indeterminato,
chiedeva di essere ammesso al concorso pubblico per titoli ed esami bandito
da Alma Mater Studiorum – Università di Bologna per la copertura di
numero 4 unità di personale, categoria Elevata Professionalità, posizione
economica 1, area tecnica, tecnica scientifica ed elaborazione dati –
valorizzatore della ricerca, indetto con Disposizione Dirigenziale
Rep.629 Prot. 9558 del 22 febbraio 2007; esponeva di avere iniziato il suo
rapporto di collaborazione lavorativa con Alma Mater Studiorum –
Università di Bologna nell’anno 1998 con la sua iscrizione al programma di
Dottorato di Ricerca in Direzione Aziendale, aggiungendo che da quel
momento il rapporto non era più cessato; esponeva, a maggiore chiarimento,
che nell’anno 2003 stipulava un contratto di docenza con lo stesso
Ateneo per la durata di un anno; che dopo avere ottenuto il Dottorato,
vinceva un concorso di post dottorato per la durata di due anni; che
successivamente stipulava un contratto di tutorato con l’Università di Bologna
da svolgere presso la Facoltà di Economia per l’anno 2005-2006; che
nel novembre 2005 vinceva un concorso con borsa di studio per la
formazione teorica e pratica di dottori di ricerca, attività da effettuarsi
presso il Servizio Europeo Alma EU dell’Area della Ricerca dell’Università
di Bologna; che detta borsa di studio, inizialmente della durata di 17
mesi, veniva poi rinnovata alle medesime condizioni con scadenza il 31
dicembre 2007; lamentava di avere presentato domanda di ammissione al
concorso pubblico sopra ricordato, avendo ottenuto un diniego da parte
della convenuta, diniego motivato sulla base della mancanza della
cittadinanza italiana; concludeva chiedendo fossero rimossi gli effetti di
tale discriminazione da lui patita, con cessazione della condotta
discriminatoria e sua ammissione al concorso suddetto;

si costituiva in giudizio la Alma Mater Studiorum – Università di
Bologna, rappresentata e difesa dalla Avvocatura dello Stato, eccependo
preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice adito a favore del
Giudice Amministrativo, ciò in considerazione del fatto che non poteva
essere imputata alla PA alcuna condotta discriminatoria nei confronti
del ricorrente, e che oggetto del presente procedimento era la mera
contestazione di un provvedimento di esclusione da un concorso pubblico;
contestava poi tutto quanto dedotto da controparte, affermando che
l’Università di Bologna si era limitata a dare applicazione alle vigenti
norme in materia di accesso al pubblico impiego che prevedono il requisito
della cittadinanza italiana, normativa peraltro non in contrasto con il
principio di parità di trattamento del cittadino straniero rispetto al
cittadino italiano; concludeva, quindi, chiedendo il rigetto del
ricorso;

dopo ampia discussione orale, la causa veniva assunta in riserva;

si osserva:

preliminarmente, l’eccezione di difetto di giurisdizione in capo al
giudice adito è infondata avendo il ricorrente adito l’Autorità
Giudiziaria ai sensi dell’art.44 del D.L.vo n.286/1998 e dell’art.4 del Decreto
Legislativo n.215/2003, chiedendo la rimozione di un provvedimento
discriminatorio della Pubblica Amministrazione: ora, se pure ai sensi
dell’art.63 del Decreto Legislativo n.165/2001 restano devoluti al Giudice
Amministrativo tutti i profili di interesse pubblico inerenti la fase
della formazione del pubblico impiego, tuttavia nella fattispecie la
posizione azionata - precedente all’instaurarsi del vincolo contrattuale di
lavoro - involge la tutela di diritti fondamentali dell’individuo,
comprendendo il diritto al lavoro, riconosciuto dall’art.4 della
Costituzione, anche la facoltà di accesso al mercato del lavoro, la facoltà di
scelta e di esercizio dell’attività professionale;

si osserva, ancora preliminarmente, che nella ampiezza della dizione
degli artt.43 e 44 T.U. Immigrazione e degli artt. 2 e 3 D.L.vo
n.215/2003 e nella loro portata omnicomprensiva, si deve ritenere che anche la
presente fattispecie – nella quale alla Pubblica Amministrazione certo
nessun comportamento intenzionalmente discriminatorio può essere
imputato, bensì solo l’avere dato applicazione alla normativa ragionevolmente
ritenuta vigente – rientri nella previsione delle norme invocate,
atteso che tali norme non richiedono che il comportamento da reprimere sia
assistito da un intento discriminatorio, ma semplicemente che si sia in
presenza della mera produzione di un effetto discriminatorio dovuta ad
atti o comportamenti del privato o della Pubblica Amministrazione (la
“discriminazione indiretta” di cui all’art.2, comma 1, lettera b, del
D.L.vo n.215/2003);

si ritiene, quindi, ammissibile il ricorso pure sotto questo profilo;

venendo al merito della controversia, la principale normativa cui fare
riferimento - schematicamente - è la seguente: quanto all’accesso al
pubblico impiego, il Decreto del Presidente della Repubblica del 10
gennaio 1957 n.3 (Testo Unico delle disposizioni concernenti lo statuto
degli impiegati civili dello Stato), ove si introduceva – in attuazione
dell’art.51 Cost. – il requisito della cittadinanza italiana tra quelli
generali richiesti per l’accesso al pubblico impiego, ciò tuttavia al
solo scopo di perseguire al meglio i fini pubblici; il Decreto Legislativo
n.29/1993 (art.37) e il Decreto Legislativo n.165/2001 (nuovo Testo
Unico sul pubblico impiego – in particolare, l’art.38), che stabiliscono
che anche – e solo - i cittadini degli Stati membri della Comunità
Europea possano accedere ai posti di lavoro presso la pubblica
amministrazione a condizione che l’incarico ricoperto non implichi esercizio
diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attenga alla tutela
dell’interesse nazionale, individuandosi con Decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri i posti delle amministrazioni pubbliche per l’accesso
ai quali non può mai prescindersi dal possesso della cittadinanza
italiana (determinati con Decreto del 7 febbraio 1994 n.174); e ancora il
Decreto del Presidente della Repubblica n.487/1994 (emesso ai sensi
dell’art.41 del D.L.vo n.29/1993) che per l’accesso agli impieghi nelle
pubbliche amministrazioni prevede il requisito della cittadinanza italiana
aggiungendo che tale requisito non è richiesto per i soggetti
appartenenti alla Unione Europea, fatte salve le eccezioni di cui al Decreto
del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 febbraio 1994 (art.2); quanto
poi al principio di eguaglianza e parità di trattamento fra cittadini
extracomunitari e cittadini italiani, si devono annoverare la
Convenzione della Organizzazione Internazionale del Lavoro n.143 del 24 giugno
1975, poi ratificata con Legge 10 aprile 1981 n.158, che impegna
l’ordinamento a “promuovere e garantire la parità di opportunità e di
trattamento in materia di occupazione e di professione … per le persone che, in
quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si trovino
legalmente sul suo territorio (art.10 della Convenzione), aggiungendo che
ogni Stato membro può restringere l’accesso a limitate categorie di
occupazioni e di funzioni “qualora tale restrizione sia necessaria
nell’interesse dello Stato” (art.14 lett.c); il Decreto Legislativo n.286/1998
(Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in particolare l’art.2,
comma 3, a mente del quale “la Repubblica italiana garantisce a tutti i
lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e
alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti
rispetto ai lavoratori italiani”, e comprende tra gli atti di
discriminazione anche il fatto di chiunque imponga condizioni più svantaggiose o
si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione allo straniero
regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di
straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia
o nazionalità; ed ancora il Decreto Legislativo n.215/2003 attuativo
della Direttiva Comunitaria n.43/00, che dopo avere affermato
l’applicazione del principio di parità di trattamento a tutte le persone sia nel
settore pubblico che in quello privato, chiarisce che tale principio
deve regolare anche l’accesso all’occupazione ed al lavoro, sia autonomo
che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di
assunzione (art.3, comma 1, lett.a);

di tale coacervo di norme (qui di necessità sinteticamente ricordate)
altra interpretazione non può essere data che quella sistematica
costituzionalmente orientata, anche seguendo l’insegnamento della Corte
Costituzionale, che ha avuto modo di affermare la regola di diritto secondo
la quale il principio di uguaglianza tra lavoratori comunitari ed
extracomunitari, immanente nel nostro ordinamento anche alla luce della
normativa primaria sopra richiamata, non può intendersi violato laddove non
sussista alcuna norma che neghi espressamente o implicitamente il
diritto controverso all’extracomunitario; testualmente “deve dunque
affermarsi che non sussiste la lacuna normativa denunciata dal rimettente,
potendosi dalle disposizioni legislative in vigore trarre la conclusione,
costituzionalmente corretta, della spettanza ai lavoratori
extracomunitari, aventi titolo per accedere al lavoro subordinato stabile in
Italia, in condizioni di parità con i cittadini, e che ne abbiano i
requisiti, del diritto di iscriversi negli elenchi di cui all’art.19 L.n. 482
del 1968 ai fini della assunzione obbligatoria” (Sentenza N.454 del
1998); la Corte Costituzionale nel dichiarare costituzionalmente corretta la
previsione del principio di parità di trattamento tra cittadini
extracomunitari e cittadini italiani per l’iscrizione negli elenchi per
l’avviamento obbligatorio (potendo così i cittadini extracomunitari
iscriversi alle normali liste di collocamento anche in assenza di una espressa
norma autorizzatrice in tal senso), implicitamente riconosce che il
cittadino extracomunitario possa accedere al pubblico impiego attingendo
anche la Pubblica Amministrazione da tali liste, sgombrando il campo
pure dall’eventuale portata preclusiva dell’art.51 Costituzione;

infatti, l’art.51 Costituzione - che tende comunque ad evitare ogni
discriminazione nell’accesso agli impieghi pubblici e afferma un
principio di uguaglianza - non ha costituito per il legislatore nazionale
ostacolo alcuno né alla equiparazione fra cittadini italiani e cittadini
comunitari nell’accesso al pubblico impiego (Decreto del Presidente della
Repubblica n.487/1994 e Decreto Legislativo n.165/2001), nè
all’accesso al pubblico impiego dei cittadini extracomunitari per le posizioni
per le quali non era richiesto un titolo di studio superiore alla scuola
dell’obbligo (art.16 L.28 febbraio 1987 n.56, ora abrogato dall’art.46
L. 6 marzo 1998 n.40 – circostanza qui ininfluente), e neppure
all’accesso al pubblico impiego per cittadini extracomunitari destinati
all’esercizio di mansioni di lettori universitari di madre lingua (art.27
D.L.vo n.286/1998) o di infermieri professionali (art.22 Legge n.189/2002);

maggiori problemi interpretativi nascono con l’entrata in vigore del
nuovo Testo Unico sul pubblico impiego, il D.L.vo 165/2001 (che ribadisce
una decisa limitazione all’accesso al pubblico impiego), norma
successiva ed equipollente per rango – poiché anch’essa primaria – al T.U.
sull’immigrazione e con esso sostanzialmente in contrasto; né si può
sostenere che la reintroduzione del divieto per i cittadini extracomunitari
di accedere al pubblico impiego si dovuta ad una svista del legislatore
che semplicemente riproduceva una disposizione già abrogata; e
allora, solo una interpretazione sistematica conforme ai principi
costituzionali può portare a ricomporre la frattura, interpretazione vieppiù
avvalorata dall’entrata in vigore del Decreto Legislativo n.215/2003
attuativo della Direttiva Comunitaria n.43/00 (pure fonte normativa di rango
primario e successiva, a sua volta, al nuovo Testo Unico sul pubblico
impiego) che afferma come anche la disciplina dell’accesso
all’occupazione e al lavoro debba essere regolamentata in base al principio della non
discriminazione; si sottolinea come tale impostazione possa trovare
fondamento – sia pure solo in termini di interpretazione conforme - anche
nelle disposizioni contenute nella Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000 (Carta di Nizza), laddove
all’art.21, comma 2, si legge “Nell’ambito della applicazione del Trattato che
istituisce la Comunità europea e del Trattato sull’Unione Europea è
vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve
le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi”;

altro ostacolo interpretativo si pone esaminando il comma terzo
dell’art.27 dello stesso D.L.vo n.286/1998, laddove si legge che “rimangono
ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza
italiana per lo svolgimento di determinate attività”; tale apparente
discrasia deve essere superata leggendo in senso restrittivo la dizione
“determinate attività”, “attività” che andranno, in buona sostanza, a
coincidere con quelle elencate nel Decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri 7 febbraio 1994 n.174 sopra ricordato, valido per i cittadini
comunitari (in ossequio anche all’art.98 Cost.), in tal modo chiudendosi,
per così dire, il cerchio nel rispetto anche della normativa ad
efficacia “rinforzata” di cui alla Legge 158/1981 attuativa della Convenzione
OIL n.143/1975 e esplicitante valori fondamentali già
costituzionalmente riconosciuti (artt.3 e 4 Cost.);

pertanto, la normativa relativa all’accesso al pubblico impiego deve
essere riletta alla luce del superiore principio più volte enunciato
dallo stesso legislatore – da ultimo con il D. L.vo n.215/2003, successivo,
come detto, anche al D. L.vo n.165/2001 T.U. sul Pubblico Impiego –
della parità di trattamento fra cittadini italiani e cittadini
extracomunitari anche quanto all’accesso al lavoro, ritenendo affermato nel
nostro ordinamento il principio di parità di trattamento anche nell’accesso
al pubblico impiego a discapito di qualsivoglia previsione normativa di
diversa portata e nell’assenza di una disposizione di legge che
esplicitamente vieti l’accesso al pubblico impiego ai cittadini
extracomunitari;

parte della giurisprudenza di merito ed amministrativa in diverse
occasioni negli ultimi anni si è pronunciata in tale senso (per tutte si
ricordano TAR Liguria 13 aprile 2001, Corte D’Appello di Firenze 2.7.2002,
Tribunale di Genova 19.4.2004, Tribunale di Genova 21.4.2004, Corte
D’Appello di Firenze 30.9.2005, Tribunale di Perugia 29.9.2006);

per quanto detto, la soluzione da ultimo offerta dalla Suprema Corte
(Cassazione – Sezione Lavoro - Sentenza 13.11.2006 n.24170) non appare
convincente, essendo il principio di diritto là enunciato realmente
supportato da una semplice norma regolamentare – l’art.2 del DPR n.487/1994
- unica ancora che preveda il requisito della cittadinanza italiana per
l’accesso al pubblico impiego, e non essendovi alcun ragionevole
motivo per riservare un diverso trattamento ai cittadini italiani, o
comunque comunitari, e ai cittadini extracomunitari relativamente all’accesso
al lavoro presso la Pubblica Amministrazione nel vigore di altra
normativa di grado superiore (Legge di ratifica della Convenzione OIL
n.143/1975, T.U. sull’immigrazione e D.L.vo n.215/2003) di segno
diametralmente opposto, costituzionalmente corretto (Corte Cost. sentenza n.454 del
1998 di cui sopra) e conforme ai principi enunciati nella Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000; e, si
aggiunge, non potendosi ritenere che tutte le variegate possibilità di lavoro
che offre l’impiego pubblico siano da far coincidere con quelle
“determinate attività” di cui all’art.27 T.U. sull’immigrazione basandosi
unicamente su di una vacua “particolarità” della materia del pubblico
impiego;

può, pertanto, legittimamente sostenersi che il principio di parità di
trattamento fra cittadini extracomunitari e cittadini italiani (valido
tanto nel settore pubblico come in quello privato) viga anche in
materia di accesso al pubblico impiego, atteso che parità ed uguaglianza
previsti dall’art.2 T.U. Immigrazione devono trovare immediata applicazione
nell’ordinamento non solo con riferimento a diritti attinenti allo
svolgimento del rapporto di lavoro, ma anche con riguardo al diritto di
aspettativa di occupazione (pur essendo senz’altro auspicabile a breve un
quanto mai opportuno intervento chiarificatore del legislatore in
materia di tale delicatezza);

si aggiunge, infine, come l’incarico che dovrebbe essere nella
fattispecie ricoperto dal ricorrente cittadino extracomunitario non implichi
certamente esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, e non
attenga minimamente alla tutela dell’interesse nazionale, non potendosi
rinvenire alcun interesse dello Stato italiano ad escludere l’accesso di uno
straniero ad un posto di categoria elevata professionalità in area
tecnico scientifica ed elaborazione dati (anche atteso quanto previsto
dall’art.37 T.U. sull’immigrazione relativo alla regolamentazione dello
svolgimento delle attività professionali con possibilità di iscrizione
dello straniero - regolarmente soggiornante in Italia ed in possesso dei
titoli professionali legalmente riconosciuti in Italia abilitanti
all’esercizio delle professioni – agli Ordini o Collegi professionali in
deroga alle disposizioni che prevedono il requisito della cittadinanza
italiana);

quanto alla domanda, pure formulata, di risarcimento del danno subito,
essa deve essere rigettata, non avendo il ricorrente fornito – né
offerto di fornire - alcun corredo probatorio a sostegno della sua
richiesta;

per quanto detto, il ricorso deve essere parzialmente accolto,
ordinando alla convenuta Alma Mater Studiorum – Università di Bologna di
ammettere il ricorrente al concorso pubblico oggetto di causa, così cessando
la condotta discriminatoria tenuta nei confronti del ricorrente e
rimuovendo gli effetti della discriminazione operata con la Disposizione
Dirigenziale Rep.1731 Prot.28000 datata 11 giugno 2007 con la quale il
ricorrente veniva escluso dalla partecipazione al suddetto concorso;

ricorrono giusti motivi (basati sulla natura e sulla novità della
controversia, nonchè sulla attuale incertezza degli orientamenti
giurisprudenziali in proposito) per compensare interamente fra le parti le spese
di lite.

P.Q.M.

Visti gli artt. 43, 44 Decreto Legislativo 25 luglio 1998 n.286,

Il Tribunale, in parziale accoglimento del ricorso,

ORDINA
ad Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, con sede in Bologna
nella Via Zamboni 33, in persona del suo legale rappresentante pro
tempore, di ammettere il ricorrente Signor ******, nato ****, alla
partecipazione al concorso pubblico per titoli ed esami per la copertura di
numero 4 unità di personale, categoria Elevata Professionalità, posizione
economica 1, area tecnica, tecnica scientifica ed elaborazione dati –
valorizzatore della ricerca per le esigenze dell’Area della Ricerca
dell’Ateneo di Bologna, indetto con Disposizione Dirigenziale Rep.629 Prot.
9558 del 22 febbraio 2007.

Rigetta la domanda risarcitoria spiegata dalla parte ricorrente.

Compensa interamente fra le parti le spese di lite.

Provvedimento immediatamente esecutivo ex lege.

Manda alla Cancelleria per la comunicazione URGENTE della presente
ordinanza alle parti.

Così deciso in Bologna in data 7 settembre 2007.


Il Giudice


Maria Cristina Borgo

_________________
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