Da Avvenire.it
Cita:
29 Dicembre 2009
Un episodio rivelatore e allarmante accaduto a Milano
Quando un nero italiano non è gradito nel locale alla moda
«Scusa, dove vai? – mi domanda il buttafuori bloccando l’ingresso con il braccio –. Questa sera c’è il 'dress-code', e i neri non possono entrare a meno che non siano accompagnati da una ragazza». Potrà sembrare strano, ma invece di stupirmi, rimango piuttosto divertito da quello che sento, dato che le parole di questo ragazzo confermano ciò di cui ho discusso ampiamente nelle mie ultime due settimane a Milano: l’Italia continua a manifestare segnali di razzismo. In questi giorni ne ho parlato, io, collaboratore di Avvenire a Nairobi, con lo scrittore Kossi Komla Ebrì, il parlamentare Jean Lenoard Touadì e il giornalista Pap Khouma, tra i più noti connazionali di origine africana.
Eppure, quando tento di entrare in uno dei tanti locali alla moda nel centro di Milano, vengo respinto perché il colore della mia pelle non rispetta il 'dress-code' del venerdì sera. «Ma proprio tutti i neri non possono entrare?», domando con un sorriso. «Sì: africani, nord africani, indiani. Mi spiace, ordini del padrone». Allora insisto, mostrandomi sempre più sarcastico: «Ma quando dici 'neri', ti riferisci agli stranieri? Lo dico perché, se vuoi, puoi controllare i miei documenti...». Faccio quindi per cercare nelle tasche il mio passaporto, fino a quando vengo fermato. Il buttafuori, chiamiamolo Mohamed, mi guarda quasi spaventato. Il dialogo assume connotazioni ironicamente assurde (o tristemente tragiche), quando chiedo al buttafuori da dove viene. «Sono marocchino», mi risponde un po’ imbarazzato. «E non trovi strano che io non possa entrare?», gli domando questa volta con espressione più seria. Mohamed non sa più dove arrampicarsi, e ribatte: «No, non è che ci sia un cartello con scritto 'I neri non possono entrare', però...».
Il buttafuori si è forse accorto di avere commesso una 'gaffe'. Capisce che se andassi avanti con le mie domande, potrei fargli perdere molto tempo e causargli non pochi problemi. Solitamente, infatti, per fare selezione all’ingresso le guardie di sicurezza inventano scuse come «Stasera siamo pieni» oppure «Non hai l’abbigliamento adatto», senza mai essere così dirette e oneste. «Posso entrare, quindi?», insisto, mettendolo sempre più in difficoltà. «Certo che puoi entrare», mi risponde sorridente. «Aspetta qui, però: vado a chiedere». Mohamed sparisce e, mentre entra nel locale, ordina al suo collega di sostituirlo alla porta. L’altro buttafuori è senegalese. Comincio a parlare anche con lui, durante l’attesa al freddo pungente: «Mi hanno detto che i neri non possono entrare se non hanno una ragazza che li accompagna, come mai?». Lui mi guarda: «Sono gli ordini del padrone, e noi dobbiamo agire di conseguenza – spiega un po’ dispiaciuto –. C’è una telecamera nel locale, collegata con il suo computer di casa. Può controllare in diretta se facciamo bene il nostro lavoro oppure no». Fa sempre più freddo, e mentre attendo Mohamed per il fatidico responso finale, penso all’ultima volta che sono stato fermato per strada da una pattuglia dei carabinieri. «Hei fratello! Vieni qua, facci vedere i documenti».
Capisco che ognuno abbia il suo lavoro da svolgere. Di questi tempi, purtroppo, sembra sia diventato normale che un nero possa rappresentare una minaccia per la sicurezza anche quando si limita a camminare sulla via pubblica. Ciò che dà più fastidio è però quel «Hei fratello!». Un approccio, da parte delle autorità, privo di rispetto per chi non si conosce e che, qualsiasi sia il colore con cui madre natura ha deciso di vestire la sua pelle, è comunque una persona – e nel mio caso un cittadino italiano. Dopo quindici minuti Mohamed ritorna sorridente: «Carissimo, mi hanno detto che posso farti entrare – afferma quasi esultante –. Anzi, ora provo a non farti pagare l’ingresso».
Matteo Fraschini Koffi