Forum della Rete G2 – Seconde Generazioni

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Autore Messaggio
MessaggioInviato: 22 dic 2007, 03:08 
Sanatoria

Iscritto il: 18 ott 2006, 15:03
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Dal 21 Dicembre 2007 fino al 6 Gennaio 2008 la serie MADE IN ITALY su IL MANIFESTO, racconti di migranti e figli di migranti che vivono le contraddizioni del pianeta Italia.

Compra il Manifesto e diffondi questi racconti che TUTTA ITALIA dovrebbe leggere, conoscere, assorbire!!!

Troverete racconti di Tahar Lamri, Gabriella Ghermandi, Cristina Ali Farah, Qi Feng Zhu, Hamid Barole, Sandra Clementina Ammendola e tanti tanti tanti altri.

DIFFONDI la notizia :))) sostieni un mondo diverso

BUON ANNO :)))

PS: Il primo è uscito Venerdi 21, il prossimo Domenica, di una G2 Gabriella Ghermandi :)) ci saranno anche tanti altri Saba, Qi Feng.....


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MessaggioInviato: 22 dic 2007, 03:10 
Sanatoria

Iscritto il: 18 ott 2006, 15:03
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Storie italiane
Alessandro Portelli


Ci sono due «cadute» fra i racconti che «il manifesto» propone da oggi (in ultima pagina): quella del nome di Saba Anglana, e quella di Mohammad, nipote del saggio Mandu, capo tribù, volato in cielo dall'impalcatura di un cantiere edile. Fra queste due cadute diverse e conseguenti si raccontano molte storie di gente che si rialza in piedi e continua a camminare, e a parlare. Non ce ne sono due che si somiglino, ogni storia e ogni poesia è diversa dalle altre perché le persone sono diverse le une dalle altre, ognuna un'individualità - e perché ogni individualità raccontata in queste storie è un'individualità molteplice, crocevia di percorsi, di lingue, di esperienze.
«Made in Italy», ovvero l'Italia raccontata dai suoi migranti. Nella stantia retorica su «i diversi», ecco delle diversità che non derivano dall'appartenenza a gruppi, «etnie», nazionalità, culti omogenei ma derivano dall'essere ciascuna e ciascuno, a modo suo, persone. «L'arte ti porta da ogni parte», dice Saba Anglana, musicista. Questo è il bello della letteratura: un testo va dove gli pare, e deve la sua esistenza al fatto di essere diverso da ogni altro. Sono storie vere, storie verosimili, storie immaginate, storie inventate - storie vere filtrate dall'immaginario, storie immaginarie che impattano con la materia dell'esperienza vissuta. Perciò, non scambiamole per «testimonianze». Certo, sono atti democratici, pratica dell'obiettivo del diritto di parola, conquista della lingua come elemento imprescindibile di cittadinanza. Ma vanno molto oltre: anche quando c'è sofferenza e tragedia, passa sempre attraverso il piacere della scrittura, la ricerca di quella bellezza senza la quale non c'è conoscenza. La letteratura dei migranti, ormai, non cerca solo la nostra solidarietà: a suo modo, la offre a noi, aiutandoci a vivere il mondo cambiato che disorienta e spaventa tanti «indigeni» italici.
Tanti di questi testi non parlano solo dei migranti, ma parlano molto anche dei nativi, magari fra le righe, sempre con il taglio implicitamente ironico di chi guarda da un altro punto di vista. Tahar Lamri - poliglotta francofono, arabofono, italofono e anche romagnolofono - guarda i suoi compaesani romagnoli preda di incubi irreali, incapaci di fondare le loro emozioni sulla propria esperienza invece di farsele dettare da media disonesti e interessati. Nel racconto di Igiaba Scego, già dal titolo, il «linciaggio di provincia» è raccontato attraverso il filtro dell'assurdo, come davvero è la scoperta del nemico e del demonio in chi fino a un momento prima era un vicino di casa (ma non ci insegna niente la Bosnia? Chissà, forse tutti i linciaggi, a partire da quelli del Sud degli Stati Uniti. Sono linciaggi di provincia: perché accadono in provincia, perché degradano a provincia nel senso più banale anche le metropoli).
Andiamo incontro al nuovo anno accompagnati da queste voci. Sono voci italiane, non solo perché parlano la lingua ma perché parlano qui, parlano adesso. Se l'Italia nuova fosse questa, ci sarebbe ancora (per citare Bruce Springsteen) ragione di credere.


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 Oggetto del messaggio: Ultima aggiunta su Made in Italy
MessaggioInviato: 22 dic 2007, 03:14 
Sanatoria

Iscritto il: 18 ott 2006, 15:03
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Ultima aggiunta. Nell'articolo di Portelli non c'è la distinzione tra figli di migranti e migranti, non era un lavoro su G2, la mia idea (perchè l'ho curata tutta io) era in questo specifico caso di far vedere che l'Italia che LORO si ostinano bianca, monoculturale, cristiana, invece ORA è fatta di tante molteplicità.....ecco perchè quel titolo MADE IN ITALY, era per far riflettere.

Poi fatemi sapere cosa ne pensate. Escono Giovedi, Venerdi, Sabato, Domenica. Il racconto di gabriella Ghermandi non lo perdete, non parla di figli di migranti. Ma di una donna e del suo coraggio.

Conto su di voi, diffondete la notizia. Igiaba


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 Oggetto del messaggio: QIfeng su Made in Italy il 27 Dic
MessaggioInviato: 23 dic 2007, 15:59 
Sanatoria

Iscritto il: 18 ott 2006, 15:03
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Io mano a mano vi segnalo noi figli che scriviamo sulla serie.

Giovedì 27 dic su Il Manifesto serie MADE IN ITALY il racconto di Qifeng Zhu :))))

Non ve lo perdete!!!!

Vi metto qui l'incipit:

[i]Ho comprato Porta Portese stamane e ho visto un annuncio alquanto interessante. fa proprio al mio caso, direi. Recitava pressappoco così.... [/i]


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MessaggioInviato: 23 dic 2007, 19:27 
Extra terrona
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Iscritto il: 03 lug 2006, 13:44
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Bella iniziativa Igi! vedo che ci scrive anche un G2, ossia un membro della rete G2, tra i fondatori, come Qifeng Zhu. Forza Qifeng!!! E forza anche Igi :)

Ricordiamo che per G2, soprattutto all'interno di questo Forum, intendiamo chi fa parte della rete G2 - Seconde Generazioni, organizzazione che appunto ha portato alla notorietà questo acronimo che poi i giornalisti hanno utilizzato sempre più per indicare una intera categoria di persone.

Per noi "G2" sono coloro che condividono gli obiettivi della rete G2, figli di immigrati e rifugiati, ma anche i ragazzi adottati, o ragazzi figli di italiani. Ossia un gruppo, speriamo sempre più ampio, che è diventato consapevole di una trasformazione della società italiana e che vuole che il cambiamento sia in meglio, a partire da analisi e azioni dirette: partecipare, insieme, per non essere esclusi.


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 Oggetto del messaggio: Per chi se li fosse persi.....
MessaggioInviato: 28 dic 2007, 02:14 
Sanatoria

Iscritto il: 18 ott 2006, 15:03
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Cari amici ho deciso di copiare e incollare i racconti dei figli di migranti usciti sullo spazio made in Italy Il Manifesto.

Per chi se li fosse persi.....:)


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MessaggioInviato: 28 dic 2007, 02:15 
Sanatoria

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made in italy
Gabriella Ghermandi

Gabriella Ghermandi è nata ad Addis Abeba nel 1965 e si è trasferita in Italia nel 1979, dove vive a Bologna, città di origine del padre. Seguendo l'arte della metafora tipica della tradizione culturale etiope, scrive e interpreta spettacoli di narrazione che porta in giro. Ha detto di sé: «Per i bianchi non ero bianca e per i neri non ero nera. Mia madre ha vissuto e subìto il colonialismo e voleva che io e i miei fratelli ci sentissimo il più possibile italiani. La nostra era una vita mista, fatta di quattro lingue diverse: l'amarico e l'italiano erano quelle di tutti i giorni, il bolognese e il tigrino erano le lingue della festa». Nel 2007 è uscito il suo primo romanzo «Regina di fiore e di perle» (Donzelli). È redattrice di El Ghibli.


«Melkam Amlak», che mal d'Etiopia

Certe volte la mattina mi sveglio e mi fanno male tutti i dolori. Mi rannicchio sotto le coperte e attendo. Nella speranza che si attenuino. Ma loro mi avvolgono come una guaina troppo stretta, troppo stretta. Che non si allenta. Certe volte la mattina mi sveglio e mi va stretta tutta la stanza. Non c'è spazio per me in questa terra Tilian. Non c'è spazio se non per per un urlo soffocato che solo io posso percepire.
Sottovoce mi metto a cantilenare «Aisosh nebsè bie aha, melkam wogegn allen» «Coraggio ti dico anima mia, abbiamo comunque un benevolo alleato». E' così che acqueito la mia anima dolente. Lei smette l'urlo soffocato e si accoccola accanto a me come un piccolo feto e io l'accarezzo con una mano. «Aisoch nebsè biè aha, melkam wogegn allen» continuo a cantare e lei si apre, quel tanto che basta per farsi raggiungere. Chiudo gli occhi e lascio le mie dita percorrere le sue forme. I polpastrelli passano veloci, la sfiorano come un soffio, vanno qua e là, attendendo di sentire la ruvidezza di quei segni, dove iniziano i sottili fili neri, il dedalo di tracce, la ragnatela asimmetrica. E' la mia mappa, la mappa delle incrinature, residuo di vecchie fratture ricomposte malamente. Una mappa che somiglia ai segni su un piatto di porcellana bianca, andato in pezzi e risistemato da un apprendista restauratore.
Certe volte la mattina mi sveglio e so già che mi attende l'angoscia perché ho smarrito il silenzio. Eppure un tempo l'avevo. Dove l'ho messo? Forse è finito sotto lo stridio dell'incrinatura più grande? E' lei quella da cui si dipanano tutte le altre. La madre dei miei dolori. La prima frattura malamente ricomposta.
Mi sono rotta per la prima volta quel giorno della morte di papà. Avevo cinque anni e papà mi aveva portato alla pasticceria Enrico a prendere una millefoglie con la crema. La mia pasta preferita. Avevo insistito tanto, ma tanto. Lui mi aveva lasciato con i camerieri. Mi conoscevano tutti, mi chiamavano Guncie, «guanciotte mie», per il mio viso pienotto. Stavo assaporando la mia pasta quando hanno iniziato a sparare per strada. La parete era di vetro e vidi tutto. C'erano dei militari con il kalashnikov che sparavano a papà. Il suo corpo ballava sostenuto in aria dalle raffiche di mitra. Ogni colpo faceva sorgere dal suo corpo un fiotto di sangue. Ballava e ballava con il sangue che usciva come l'acqua da un rubinetto. E io guardavo, al centro della pasticceria, attraverso la parete di vetro. E lui ballava al ritmo di quella musica assurda, a pochi passi da me.
I camerieri si erano buttati tutti per terra e io ero rimasta l'unica in piedi. In mezzo alla sala, con la pasta tra le mani e i miei quattro codini in testa legati con gli elastici con le palle grosse, che mi piacevano tanto. Ero rimasta in piedi e non capivo.
Qualcuno urlò «Guncie» e mi trascinò per terra. Caddi schiacciando la pasta, e la crema fuoriuscì dalla sfoglia come il sangue dal corpo di papà.
Non so quanto durò e quando smisero di sparare mi misi a piangere e non sapevo se piangere per la pasta spappolata sul pavimento o per papà. Ero così confusa che non capivo cosa faceva più male.
Papà è morto quel giorno, ma solo dopo alcuni anni seppi che era stato ammazzato perché era uno dei capi del fronte di liberazione eritreo. Lo seppi quando mamma ci disse che andavamo via da Addis Abeba, andavamo ad Asmara e lasciavamo gli Amhara che avevano sostenuto l'anima della mamma quando papà era morto. Gli Amhara che avevano pianto al suo fianco per quaranta giorni per diluire con le loro lacrime il suo dolore. Lasciavamo la nostra terra per andare in una che avrebbe dovuto essere ancora più nostra. Una cosa strana che non compresi bene. Io sapevo che non poteva esserci un'altra casa se non la nostra con il falso banano nel cortile e Haptamu, il mio amico, con tutta la sua famiglia di sorelle grandi che mi insegnavano le canzoni guraghe.
Siamo partiti comunque, anche se non volevo. Io e Haptamu abbiamo pianto sulla porta di casa e mentre mi allontanavo lui mi cantava le canzoni dei nostri giochi.
«E' piccola - dicevano gli amici a mia madre e ai miei fratelli grandi - scorderà presto». Non mi sono scordata, però dopo qualche anno di Eritrea sono tornata ad essere felice. E' bella l'Eritrea: Asmara, il corso principale contornato da palme, con i giochi di luce dei raggi che filtrano tra le fronde, e Massawa, la perla del nostro mare. Bianca di pareti merlettate da antiche architetture arabe, case d'archi per creare correnti di vento, a rendere sopportabile il caldo e l'aria, densa come un solido che ostruisce la gola quando respiri. Keren con il girofiori, poi Nefasit, la ventosa, così è chiamata la città di mamma.
La prima volta che l'ho visto ho pensato fosse magica e abitata da spiriti. Solo gli spiriti potevano essere tanto leggeri da non fare precipitare a valle un paese appoggiato in bilico su un colle. Nefasit la bella, con le finestre di ogni casa rivolte verso la piana che porta a Massawa, al mare, con il vento che la batte regolando l'umore degli abitanti: gioioso, umido, forte di temporale arrabbiato...
Quando siamo diventati indipendenti ormai l'Eritrea era diventata casa per me. Sono scesa anch'io nel corso principale a festeggiare i guerriglieri e mi sono commossa sentendo le nostre anziane ripetere battendosi il petto «te haguisè», «mi sono felicitata», e baciare i guerriglieri come fossero figli dei loro ventri.
Non pensavo più alla mia prima frattura quando è arrivata la seconda.
Mamma è morta. Non so neppure perché. E' morta è basta.
In ospedale mi ha serrato la mano, come per dirmi «aisosh!» e poi l'ha lasciata andare e non c'era più.
Ci siamo stretti io e i miei fratelli. L'uno all'altro. Non c'erano i vicini Amhara come in Etiopia, a mantenere in piedi le nostre anime.
Dovevamo fare da soli. Lo diceva sempre mamma, come gli Amhara non c'è nessuno. Loro sanno condividere il dolore della gente e stanno con le famiglie dei morti per quaranta giorni. Da noi solo tre giorni e in un modo così diverso che ti fa restare il vuoto dentro.
Da quella seconda rottura ce n'è stata una terza, una quarta, una quinta fino a che la mia anima non è diventata una mappa di fratture malsistemate.
Poi c'è stata quella che mi ha fatto scappare e venire qui, in Italia.
Era un'alba del '99 quando hanno cominciato ad arrivare camion di ragazzi, di famiglie, di bambini e anziani. Erano eritrei d'Etiopia, scappati o cacciati perché tra i nostri due paesi, due paesi che un tempo era stato uno e che la storia, Menelik e gli italiani si erano divertiti a separare, tra i nostri due paesi, figli della stessa madre, si preparava la guerra.
Sono partiti in tanti per quel servizio militare che portava dritti al fronte dopo solo due mesi di addestramento. Anche quelli che erano arrivati dall'Etiopia ci andarono. Io credevo di restarne fuori ma poi in una retata di reclutamento sono finita in mezzo pure io, come un pesce che non ha alcun pregio per il palato, ma già che è finito nella rete tanto vale mangiarlo.
Dice la canzone: «I hedal I metal fikir inde sew, wustu mai melles ke mot biccianow» «l'amore viene e va, come le persone. Ciò che non torna è solo la vita, dentro, dopo la morte» e io non volevo finire in quel non ritorno, ma i nostri guerriglieri, quelli che avevano combattuto tanti anni per liberare il paese, ci addestravano ricordandoci che eravamo tutti in debito con loro e con il nostro giovane paese, ed era arrivato il momento di saldare il conto.
Due mesi di addestramento al campo di Sawa e sono finita in trincea. Un budello scavato nella terra, a poche centinaia di metri da un altro budello, con dentro i ragazzi etiopi. Poteva esserci qualcosa di più assurdo?
Quando sono arrivata era un periodo di tregua, a volte capitava. Qualche giorno senza spararsi, e in quelle pause, di vita che si intrufola nel tessuto della morte, succedeva una cosa incredibile: ci si scriveva, tra le due trincee. Eravamo tutti ragazzi, eravamo figli di fratelli, parenti, popolo con lo stesso nome. Era normale scriversi «da voi quanti ne sono morti? Da noi due e tre feriti gravi» «come sta la vostra Helen, l'hanno portata in ospedale?» «mia madre mi ha mandato un pacco con il Thini, vi mando la metà».
Poi quella cosa terribile. Un giorno un messaggio che recava una firma: Haptamu. Arrivò al tramonto, quando non c'era più tempo per rimandare un messaggio e chiedere «Haptamu chi? Sei forse il mio Haptamu?». Era possibile che fosse lui? Oddio, stavamo uno contro l'altro e potevo correre il rischio di ammazzarlo o di farmi ammazzare da lui. Avrei voluto urlare le canzoni guraghe che non avevo mai scordato, per vedere se mi avrebbe risposto. Ma non potevo. Il buio era già avanzato.
Sono scappata quella stessa notte con davanti ai miei occhi i tratti di tutti i bambini della mia infanzia ad Addis Abeba. Non vi è peccato peggiore che ammazzarsi tra fratelli. Non lo aveva forse già detto Dio quando era morto Abele?
Sono scappata con altri quattro decisi come me a non commettere quel peccato. Abbiamo camminato per giorni, verso il mare, ci siamo uniti a una carovana di Afar e siamo giunti a Massawa, dove ci siamo nascosti, a Ushti Batszi, da una mia zia. Lei si è messa in contatto con le famiglie dei ragazzi e ha recuperato soldi. Poi abbiamo preso una barca di pescatori e siamo finiti in Yemen, da lì un volo per Khartoum, a Khartoum un fuoristrada per la Libia...
Come sono arrivata fin qui? A volte ho sentito i vostri vecchi raccontare del ritorno dalla Russia... Ecco, così sono arrivata fin qui, come loro, spinta dal desiderio di vivere che ha vinto su tutto. E' stato quello più dei piedi, delle barche, dei gommoni, degli aerei che mi ha portato fin qui. Come fu un tempo per i vostri vecchi.
Certe volte la mattina mi sveglio e non apro gli occhi. Cosa li apro a fare che tanto non ho ancora incontrato nessuno del vostro paese disposto a guardarvi dentro e scoprire la mappa delle mie incrinature.
Mi sono anche fatta fare le trecce, sottili sottili come i fili neri della mia mappa. A volte scuoto la testa sperando che le trecce si dispongano nell'aria ricreando la mappa. Magari qualcuno si incuriosisce. Per ora non è ancora successo. Continuano tutti a vedermi attraverso i loro pensieri già costituiti. La signora a cui bado la madre, mentre rigiro sua madre nel letto mi dice ridendo «certo che voi qui avete trovato l'albero della cuccagna». Io sorrido e non rispondo. Poi esco dal lavoro e qualche uomo mi chiede quanto voglio, maschi in macchina, in compagnia di donne, mi sfanalano, donne anziane di ritorno dalla spesa si stringono la borsetta, e le persone che vogliono essere gentili mi chiedono come si vive da donna musulmana. Non conta che io porti una visibile croce al collo.
E mi ritrovo senza parole, e non so perché ma mi viene da ripetere «Ecco l'albero della cuccagna!»
Certe volte la mattina mi sveglio e mi viene da ridere. Mi succede in queste ultime mattine perché presto arriverà il Natale. Qualcuno mi ha detto che il Natale è in realtà una festa pagana che festeggia il ritorno della luce nella notte più lunga dell'anno. E io rido, magari la luce torna anche per me.
Ma poi mi viene una grande tristezza. Vivo il Natale in questa terra dove la gente ne ha smarrito il senso. Urlano tutti «siamo cristiani» ma Cristo lo hanno ripudiato già da tempo, e a me non resta che cantare la mia vecchia canzone
«Se una curva si trasforma in un crepaccio, se una disgrazia improvvisa mi getta nella disperazione, se mi ritrovo assetata e senz'acqua, se coloro che mi hanno generato non ci sono più, se arriva un buio che non arretra ti dico "coraggio anima mia, ci resta comunque un benevolo alleato. Ci resta comunque Melkam Amlak"».


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MessaggioInviato: 28 dic 2007, 02:17 
Sanatoria

Iscritto il: 18 ott 2006, 15:03
Messaggi: 63
Località: Roma
Zhu Qifeng

Zhu Qifeng è nato in Cina nel 1982, non ha deciso di venire in Italia all'età di 8 anni: ce l'hanno portato a forza i genitori. Fatto sta che grazie a Sergio, professore di antropologia, finito per caso all'ITIS dove frequentava il terzo anno di superiore, si innamora dei libri e ne divora a valanghe. Combattuto tra letteratura e informatica, ha optato per studiare ingegneria informatica - aveva pensato: vuoi fare il bibliotecario o il consulente informatico? Sicuramente il consulente!!!- e si spera che si laurei l'anno prossimo all'età di 26 anni.

China express» al bar di piazza Venezia
Zhu Quifeng


Ho comprato «Porta Portese» stamane e ho visto un annuncio alquanto interessante. Fa proprio al mio caso, direi. Recitava pressappoco così: «Piazza Venezia, bar centralissimo e ristrutturato da poco, avviatissimo, causa pensionamento precoce vendo a prezzo vantaggioso». Appena lo mostro a mia moglie, le si accendono gli occhi e mi dice di chiamare subito, «non c'è tempo da perdere, tra i cinesi va di moda aprire i bar e con un prezzo così non possiamo farcelo sfuggire». Ha perfettamente ragione, quando tra i cinesi qualche attività va di moda, va letteralmente a ruba. Ricordo che un po' di anni addietro, siccome il ristorante cinese era un'attività che andava bene, tutti i cinesi volevano aprirsene uno; poi quando tra la comunità si era sparsa voce che si guadagnava bene con i negozi all' ingrosso, quasi tutti aspiravano ad aprirne uno. Piazza Vittorio a Roma, così come lo conosciamo oggi, è nata proprio da questa «moda». Anche i miei all'epoca hanno cercato di prendersi il loro benedetto ingrosso di abbigliamento, ma le buonuscite dei negozi del rione erano ormai talmente gonfiate da questa bolla-moda, che alla fine ci hanno rinunciato. E sono certo che non erano gli unici sfigati della comunità cinese che non hanno trovato quello che cercavano. Per un negozio, c'erano commercianti italiani che per un buco di 30 mq chiedevano trecentomila «euri»!
Chiamo il numero dell'annuncio e mi risponde una voce rauca, romanesca al massimo. «Quanno vole, passi e vede quant'è bello sto baretto. Me dispiace nun sa quanto che o devo da' via». E fisso l'appuntamento per l'indomani mattina. Comunico la notizia a mio padre, che comincia a bombardarmi di domande. «Come è la posizione? E' commerciale la via? Quanto incassa al giorno?», pur essendo un laoban* mancato - sfiga vuole che i suoi venti anni in suolo italico li abbia passati come cuoco di ristoranti cinesi altrui- sa che affinché un'attività possa prosperare, deve avere certe peculiarità. Lo rassicuro dicendogli che non ho mai visto un bar migliore di questo nella mia biennale ricerca. «Vuoi venire anche tu domani?», gli chiedo. E lui naturalmente accetta: non può permettersi che il suo figlio più piccolo, 26enne, sposato da un anno non abbia ancora un negozio, ristorante, laboratorio di vestiti, tutto suo e quindi non vuole che sbagli acquisto!
Nel fiore dei suoi 55 anni deve sistemare solo me, l'unico che ha intrapreso e abbandonato la via dell'università, l'unico che per campare è ridotto come un precario italiano. I miei due fratelli maggiori hanno già rispettivamente un negozio di abbigliamento e un ristorante giapponese. E sono belli e sistemati, soprattutto il secondo: i ristoranti giapponesi rendono bene - «te credo co' quei prezzi!», opinione dell'altro fratello, forse un po' invidioso - e pochi italiani riescono a distinguere un giapponese da un cinese - tanto che agli occhi di un romano «li cinesi so' tutti uguali» - quindi è facile far passare per giapponesi autentici dei cinesi doc. C'è però da dire che la differenza enorme che c'è tra un ristorante cinese e uno giapponese è che andando a mangiare dal primo con dieci- quindici euro si ha un pasto completo, mentre andando dal secondo, con gli stessi soldi, si esce con lo stomaco ancora più vuoto di quando si è entrati. Quando ho chiesto a mio fratello se avesse qualche rimorso per aver aperto un ristorante con marchio del nemico storico della Cina, mi ha riso in faccia dicendomi in un misto di cinese, romanesco e italiano: «O sto a fa' pe' sordi, nun me frega un fico secco della storia, qui in Europa l'importante è guadagnà, li sentimenti vengono dopo». Quell'«Europa» l'ha detto in cinese, come cinese è il suo pensiero: mio padre dice sempre che «in Europa bisogna pensare ai soldi, non esistono sentimenti e ti puoi fidare solo dei parenti» - «a volte manco quelli», mi ripete spesso il mio fratello ristoratore.
L'indomani andiamo a vedere il bar. A prima vista il proprietario non sembra tanto entusiasta di vederci: al telefono forse non aveva capito che sono cinese. Ma mi ricredo quasi subito, il signore è molto alla mano, mi conduce nel suo piccolo bar - che tanto ristrutturato non mi sembra - e risponde a ogni mia domanda, nonché si comporta pazientemente con mio padre che ficca il naso dappertutto. Alla fine della perlustrazione, ci sediamo tutti attorno a un tavolino e cominciamo a contrattare. «Rubinetto bagno rotto, muro sporco», dice mio padre nel suo italiano stentato, indicando le pareti non certo pulite del bar. «Famo così, io nun c'ho voja de discute e trattà, ste cose nun fanno pe' me. Voi me dite un prezzo e ve lo cedo». Anche se da un commerciante non mi aspetto che dicesse la verità, non mi sembra un cattivo inizio di trattativa.
***
Ho aperto da poco il bar e l'unica cosa che mi dispiace è che non ho potuto permettermi di ristrutturarlo: l'ex proprietario, che proprio prossimo alla pensione non mi sembrava, mi ha chiesto tutto in contanti. Ho dovuto fare i salti mortali per farmi prestare i soldi, anche da inimmaginabili parenti che pensavo di non avere che hanno ristoranti, negozi in Portogallo e Spagna, per non dire nella sperduta Spinea nel Veneto. Evviva i parenti (soprattutto quando servono).
Al bar vengono molti turisti e molti di loro ne hanno di soldi da spendere. Così come per tutti i bar del centro di Roma, anch'io adotto la politica del prezzo differenziato: se è un turista lo spenno, se è un autoctono allora i prezzi sono nettamente più contenuti. Stessa differenziazione c'è tra la consumazione al banco e quella al tavolino. Insomma, se uno assomiglia a un turista e consuma al tavolo, è veramente una manna dal cielo per me. Molte persone si vede a prima vista che sono straniere, ma per altri bisogna osservare di più. Se parlano italiano con un accento diverso da quello romano e hanno una mappa di Roma in mano, non mi posso sbagliare: so' turisti pure loro.
Il lavoro al bar è piuttosto noioso, ma ogni giorno scopro qualcosa di nuovo sulla Roma e sui romani che pensavo non avessero più segreti per me. Qui al centro, per i bar è obbligatorio far andare al bagno chiunque ne faccia richiesta. E io non ho mai rifiutato a nessuno quello che personalmente considero un favore. Ma molti sono talmente maleducati - appena entrano, senza nessun «Buongiorno» o saluto di sorta, vanno subito al bagno, fanno i loro comodi e se ne vanno così come sono venuti senza neppure un «Grazie» - che avrei voglia di mandarli a quel paese. Qualche volta ironicamente li ringrazio io per aver fatto uso del mio bagno e per averlo sporcato. Frequentemente accade poi che qualcuno si affacci all'ingresso del bar, con un'occhiata veda che io e mia moglie abbiamo un aspetto orientale - il che può indurre a pensare che siamo cinesi - quindi girarsi e andare via. E quest'ultimo fatto non accade solo con italiani ma anche con ambulanti che dall'aspetto mi sembrano del Bangladesh. Semplicemente non piace loro l'idea di entrare in un bar gestito da cinesi. Con altri clienti - italiani o rumeni o bengalesi - invece non ci sono problemi, ci scherzo, ci chiacchiero, parlando nel mio italiano con accento marcatamente romano. Per dire: il pregiudizio dipende dalla sensibilità delle singole persone e non si può generalizzare.
L'altro giorno si affaccia al bar un ragazzo marocchino e mi ordina un cappuccino con pesante accento romanesco. Fatto sta che ci parlo volentieri e quasi subito diventiamo amici. Dopo un po' di chiacchierate vengo a sapere che non ha un posto fisso e lavora vivendo di lavoretti saltuari e imbrogliando ogni tanto i turisti a Piazza Navona. Mi spiega che «fregalli è 'na stronzata»: praticamente chiede al bersaglio di tendergli la mano, in modo tale che si possa fabbricargli in loco un braccialetto con delle cordicelle colorate. Poi una volta finito tutto, Mohamed, il ragazzo marocchino, fa segno mostrando tutte le cinque dita al turista il costo della prestazione. Se il turista gli mette in mano un biglietto da cinque euro, Mohamed continua a mostrargli le cinque dita - «che quello caccia 'n'artri 5 euri». E così via, finché il turista non ritiene di aver pagato abbastanza e comincia a protestare. Riflettendoci un attimo, penso a quante cose abbiamo in comune io e Mohamed - stessa età quando a 6 anni i nostri genitori ci hanno portato in Italia, stesse scuole di periferia, stesso accento romano, stessa passione per la «maggica» Roma - con la sola differenza che lui è molto più precario di me. Un altro suo grave problema è che ha fatto casini con i documenti e può rischiare di diventare clandestino. «In Francia co' tutti st'anni che so' qua me la tirerebbero appresso la cittadinanza e invece qui so' costretto, co' 15 anni che so' a Roma a pensare ancora a li documenti!» mi dice Mohamed un giorno al mio bar, in un momento di calma. «C'ho dei partenti lì, me sa che se me ritrovo clandestino vado de là ... e nun sai quanto me dispiacerebbe ... e come la seguo la maggica? E 'a porchetta de Ariccia quanno me la magno? Me 'a sogno in Francia!».
E' da tanto tempo che Mohamed non si fa vivo al bar. Ogni tanto anche mia moglie accenna a lui. In fondo stava simpatico anche a lei. In cuor mio spero che non gli sia capitato nulla di male. Con la storia dei centri di permanenza temporanea e dei suicidi in queste strutture e il fatto che si sia probabilmente ritrovato clandestino, mi fa preoccupare un po'.
I giorni al bar sono tutti uguali, non capita niente di nuovo: la routine quotidiana è sveglia alle 5 e poi lavoro per 13 ore consecutive per me e mia moglie. Una sera, alla chiusura del bar, mentre abbasso le serrande, mi si presenta davanti Mohamed. Mi dà una gran pacca sulla spalla e io ricambio il favore. Lo invito a bere un bicchiere insieme, ma lui rifiuta perché sta andando via. Via dall'Italia, dove è diventato clandestino. «Te auguro bona fortuna frate'. Purtroppo io devo scappa' via, in Francia spero de trova' quarcosa de mejo». Si gira e va via. Lo seguo con lo sguardo e riesco a vedere soltanto un emigrante romano alla conquista della Gallia.
* termine cinese per indicare lo status di chi non deve stare sotto a nessuno in ambito lavorativo. In poche parole proprietario di qualche attività.


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MessaggioInviato: 28 dic 2007, 02:20 
Sanatoria

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Non è una seconda generazione, ma la sua poesia (uscita nella stessa pagina di Qifeng, mi ha commosso...ho tanto insistito per far mettere anche poesie)

Hamid Barole Abdu è nato nel 1953 ad Asmara (Eritrea), vive stabilmente in Italia dal 1974. Operatore psichiatrico, esperto interculturale, saggista, poeta, nel 1996 ha pubblicato un libro di poesie «Akhria - io sradicato poeta per fame» vincendo la XIII Edizione Premio letterario «Satyagraha» con targa dall'Associazione Comunità Aperta di Riccione. Nel 2006 ha pubblicato «Seppellite la mia pelle in Africa». Con Daniele Barbieri sta portando in giro le scimmie verdi, uno scambio di identità, niente a che vedere con convegni, dibattiti, performance teatrale. Qualcosa di nuovo dove ci si scambia i panni e si impara vivendo.


Il volo di Mohammed
Hamid Barole Abdu


Mohammed figlio di Omar e di Sumaira
Nipote del saggio Mandu, capo tribù
Etnia discendente dalla civiltà di Nubia
Mohammed figlio di Omar e di Sumaira
Nato in un Paese oppresso dalla dittatura
Sognava di respirare l'aria di democrazia
Un mondo di libertà e di giustizia
Da bambino amava arrampicarsi
Sugli alberi alti e robusti
Saltava da un tronco all'altro
Sospeso sui rami sottili
Gareggiava con le scimmie
Invincibile con gli scoiattoli
Mohammed era in Italia da poco tempo
Aveva attraversato tutto il deserto
Dal Sudan fino alla Libia
Era arrivato a Lampedusa
Solcando il Mare Mediterraneo
Nuotando meglio di un pesce
Aveva la forza di un leone
La velocità di un leopardo
In tasca aveva il permesso di soggiorno
Per motivi umanitari
Dormiva nei vagoni sui binari morti
La Caritas gli offriva un pasto al giorno
La domenica stava a digiuno
Mohammed si è arruolato come muratore
In nero, senza un contratto regolare
Legato con una corda alla cintura
Dondolava sospeso sulle impalcature
Trasportava l'intonaco su e giù senza sosta
Un secchio di cemento da trenta chili sulle spalle
Veloce nei movimenti con una muscolatura invidiabile
Ogni tanto riceveva una piccola paghetta dal caporale
Dormiva sul cantiere in una cuccia di cartone gesso
In quanto bravo lavoratore di notte faceva
Cane da guardia alle attrezzature
Mohammed non si lamentava
Né per il lavoro né per la paga
Ore ed ore sotto il sole
Riscaldavano le sue ossa fino al midollo
Si faceva la doccia con la pioggia invernale
Mohammed ha fatto un volo dal ponte
L'asse di legno sotto il piede si è spaccata in due
L'impalcatura barcolava dal vento
Mohammed non ha fatto nessun urlo
Il trapano pneumatico faceva un rumore assordante
Nessuno si è accorto e non è stato soccorso in tempo
Mohammed è volato in cielo
Nessuno sa se con sé teneva
L'indirizzo del paradiso
Pare che abbia trovato la pace
La pace che cercava quando era in vita
Adesso che Mohammed non è più tra noi
Facciamo una preghiera per la sua anima
Nessuno può dubitare che meritava
La pace sia con lui.


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MessaggioInviato: 28 dic 2007, 10:58 
G2 con doppia cittadinanza

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grande igiaba!
ah cifen è la prima volta che un tuo racconto non me sbomballa i coglioni, sarà che hai ripiegato anche tu sulla lingua del volgo, con affetto eh :lol:

smuack

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Cinese fasullo


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MessaggioInviato: 28 dic 2007, 14:53 
G2 con doppia cittadinanza
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Bellissimi questi racconti.
Grazie Igiaba!!

Forza Qifeng!
(ma quando ti sei sposato? :wink: )


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MessaggioInviato: 28 dic 2007, 15:00 
Sergente di ferro
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Cino ha scritto:
sbomballa i coglioni


mh... :roll: FINE! :!:


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MessaggioInviato: 28 dic 2007, 15:43 
G2 con doppia cittadinanza

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io invece mi sto leggendo i racconti sull'internazionale di oggi, che non c'entrano niente però so strafichi, cioè ehm sto ancora al primo di zadie smith però me la sta a fa salì un botto forte perchè è mitica.

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Cinese fasullo


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MessaggioInviato: 04 gen 2008, 02:55 
Sanatoria

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Clementina Sandra Ammendola ora abita a Torino. Prima a Vicenza. Prima ancora a Buenos Aires (sua città natale). Poi non lo sa.
Fa la sociologa della migrazione, la educatrice psichiatrica, scrive, conduce laboratori di scrittura.
Ha una gatta, Negra, vicentina di nascita che capisce la lingua argentina e il dialetto torinese, a volte.
Da quando sta invecchiando, Clementina Sandra, non trova un parrucchiere di fiducia per tagliarsi i capelli: tutti vogliono prima, farle il colore e poi farle il taglio. Allora migra tra i Saloni dei Parrucchieri e i suoi capelli diventano sempre più lunghi. Ha pubblicato «Lei che sono io» (Sinnos)



Ci sono volte, tutte le volte
Clementina Sandra Ammendola


«Insomma il tempo mi appare come una cosa corpulenta, da quando lo spazio non esiste più per me».
Antonio Gramsci.
Ci sono volte, anche ora, in cui i ricordi mi portano a raccontare delle storie. Tutte le volte ho molti ricordi.
Ricordo, le storie partono - in qualche modo - dal paese dove sono nata, l'Argentina e dall'anno in cui decido di fare la migrola, il millenovecento ottantanove. Migrola è chi vive e studia la migrazione per necessità; chi si sposta nei ricordi; chi percorre e mantiene viva la memoria. Forse migrare è una sfida ingegnosa, mutante e senza fine. Forse si è migrola per sempre.
Ricordo, il presidente Alfonsín dice «la casa è in ordine», e dice: «Buona Pasqua». Per casa intende il paese, credo. E i militari tornano buoni, per un po', nelle caserme e il presidente, Raúl Alfonsín, continua a dire che «con la democrazia si mangia, si cura e si educa». Ma si producono i primi saccheggi nei supermercati e le persone rompono i vetri dei negozi e si portano via, senza pagare, lo zucchero, la carne, il pane, i vestiti, e tutti proviamo un senso di panico: la democrazia è ancora precaria.
Il governo argentino sembra cadere a pezzi, nel millenovecento ottantanove. E con il modo di governare di Alfonsín non si educa, né si cura e neppure si mangia. Dopo qualche mese il presidente - sempre Alfonsín - dà le dimissioni e non completa il suo mandato e non conclude le sue promesse.
Ricordo, la povertà moltiplicata. Il candidato dott. Carlos Saul Menem dice «síganme, no los voy a defraudar» e parla della Rivoluzione Produttiva, di giustizia sociale e di nuovi posti di lavoro che non si capisce bene. Non si capisce bene perché i posti di lavoro non ci sono e si comincia a privatizzare tutto: la compagnia di telefono, le ferrovie, la luce, la scuola, l'energia nucleare, la medicina, e altre cose ancora; e si privatizza a prezzo di costo. Chi compra, e sono imprese di paesi stranieri, fa un affare, paga poco e chi vende, lo Stato argentino, incassa pochi soldi e non può creare nuovi posti di lavoro. Dicono che è un sistema crudele ma efficace nello stesso tempo ma, per adesso, non si capisce bene.
Ricordo, molti argentini parlano di partire. E gli argentini di origine italiana, come me, hanno due cittadinanze, due passaporti. Partire. È come una malattia. Partire è come una scelta. A volte le scelte, nella vita, si presentano misteriose e più uno cerca di svelarle, le scelte, più sembra di essere dentro un labirinto. Partire, sembra la scelta migliore. Scegliere, dicono, scegliere cosa? Partire in cerca dell'America in Europa, nella terra da cui sono partiti i nostri parenti: genitori, zii, nonni, eccetera. L'Argentina è piena di immigrati, emigrati europei arrivati da sempre, emigrati sudamericani arrivati da non si sa bene quando. Il mondo è pieno di immigrati. Migrare. È come una condanna.
Ricordo, compro il mio biglietto aereo andata e ritorno perché non si sa mai, con la compagnia che costa di meno e devo fare: Buenos Aires-Toronto e più tardi, dodici ore più tardi, Toronto-Roma. La proprietaria dell'agenzia di viaggio mi dà delle indicazioni per il viaggio e mi spiega che devo partire dall'Argentina con il passaporto argentino e poi, anche quando faccio lo scalo in Canada, devo usare il passaporto italiano. Dice che è più conveniente, è riconosciuto internazionalmente il passaporto italiano, e non insospettisce, o meglio non insospettisco le autorità aeroportuali. È come se il passaporto argentino avesse meno valore rispetto al passaporto italiano, mi spiega la proprietaria dell'agenzia. I passaporti, come le persone, non sono tutti uguali.
Ricordo, la mia valigia è pronta. È un problema fare la valigia. Non ci sta tutto, lo so. Non porto roba inutile, lascio i libri, come dice mia mamma, i libri in spagnolo non mi servono in Italia, lo so. L'unico libro che metto dentro è «Parliamo italiano 1» di Luciana Berisso e Julio César Scervino, dell'Asociación Dante Alighieri di Buenos Aires. Non ho più spazio nella valigia. Lo spazio interiore o interno, dipende. Porto qualche fotografia della mia famiglia, delle mie amiche, del mio fidanzato e dei suoi fratelli. Lo spazio intorno è diventato lo spazio interno. La valigia è piena, non riesco a chiuderla, mi siedo sopra, esercito una pressione con tutto il mio corpo sul contenuto della valigia, premo. La valigia è piena ed è pronta. Io sono pronta, a metà.
Ricordo, l'aeroporto, luogo delle dichiarazioni e dei controlli. Bisogna dichiararsi e lasciarsi controllare. E sono molto nervosa, ho paura di perdere l'aereo. Perdere l'unica possibilità di un futuro migliore, penso. Chi mi controlla non deve prendere l'aereo. Io, sì. Non ho mai preso un aereo. Ho paura. Ho paura di perdermi. Ma lui o lei deve controllare chi sei, di dove sei, dove vai, perché vai.
Cosa ha da dichiarare? Che cosa posso dichiarare: la mia data di nascita, il mio numero di passaporto, il mio numero di volo, dichiaro i miei numeri, do i numeri, diciamo. L'aeroporto è pieno di numeri. I monitor sono pieni di numeri di orari di partenza e di orari di arrivi. I ritardi sono numeri. Gli aerei hanno numeri. Le porte hanno numeri, le scale hanno numeri, i banchi di registrazione dei passeggeri hanno numeri, le valigie pesano numeri, i posti nell'aereo hanno numeri, non solo, hanno anche lettere. Finestrino o corridoio?
Ricordo, tutto sembra un enorme trasloco. Traslocare in un altro emisfero è una possibilità per chi ha due origini. Lo spazio per gli scatoloni non c'è. Ma emigrare è traslocare, dicono. Mi porto appresso ancora dello spazio intorno: le aule dell'università e due o tre lezioni di storia della sociologia che hanno cambiato la mia vita; mi porto lo sguardo leggero di Marisa, la mia amica maestra; prendo le poche parole dei miei genitori; mi devo portare gli abbracci di mio fratello; forse ci stanno gli alberi della piazza dove giocavo quando uscivo dalle scuole elementari. Mi porto appresso dei ricordi, dicono, delle storie. E dicono, come in tutti i traslochi, qualcosa va perduta per sempre e dicono, qualcosa di imprevisto salta fuori, qualcosa che non so di avere. Emigrare è lasciare. Ma non so bene cosa è emigrare, penso.
Ricordo, il viaggio in aereo è lungo due giorni in tutto. Si fanno tante cose in aereo: si aspetta, l'aereo decolla, noi pure; si mangia, si vedono film in una lingua che non capisco; si ascolta musica, si mangia; si cerca di capire i messaggi dall'altoparlante.
Più che messaggi sono indicazioni sulle cose da fare e sulle cose da non fare in aereo. Si mangia e si ha meno paura. Si mangia e si hanno più illusioni. Si viaggia, l'aereo atterra, anche noi. Si aspetta, noi dobbiamo aspettare, si cambia aereo. Si attraversa l'oceano, noi attraversiamo l'oceano, si vola, si viaggia. Si emigra che è come viaggiare o quasi, sento.
Ricordo, la gente in aereo, persone da tante parti del mondo. Persone che fanno i turisti e parlano molte lingue. Persone che parlano la mia lingua, lo spagnolo. Si dice lo spagnolo per capirsi, ma in realtà si parla l'argentino che è molto simile allo spagnolo, cambiano alcune parole e alcuni modi di dire sono diversi. E sono diversi perché lo spagnolo è stato «contaminato» dalle lingue della grande immigrazione arrivata in Argentina alla fine dell'800. Persone - allora come oggi - che portano tante speranze di una vita nuova. In aereo si fanno progetti con grande entusiasmo; in aereo non si hanno i piedi per terra. Chi si ferma in Canada, chi poi va negli Stati Uniti, chi vuole arrivare in Europa e poi si vedrà. Chi, e siamo in molti, ha un passaporto italiano - perché gli hanno riconosciuto la cittadinanza italiana - e pensa di lavorare nel nord Italia o nel sud della Spagna e poi si saprà. Emigrare è come scegliere nuove radici, credo.
Ricordo, io fingo di ricordare. Ci sono porte, solo porte, ad aspettare. Entrate e uscite. La porta del lavoro sembra la più grande ma è anche la più stretta. Il buio. Ridire chi sei, cosa sei, dove vai. Ricominciare e chiedere permesso, il permesso per non rimpatriare. Ora sono una immigrante e sono «Vu comprà», «Vu tornà», «Vu badà», «Vu sta là», «Vu affogà». La porta delle origini non so bene dove sta. Divento ridicola e devo rimarcare le mie parole, il mio dire che riporta alle mie origini. Mutevoli concezioni lungo le vie identitarie della migrazione. Allora io fingo di ricordare molto meno di quanto in effetti ricordi, ho paura.
Ricordo, sono in Italia dal ventidue dicembre millenovecento ottantanove. Da diciott'anni raggiungo dei titoli per fare delle cose, per risolvere dei problemi, per crearmi una immagine. Una immagine per me e per gli altri: per lo spazio interno, le origini, e per lo spazio intorno, gli orizzonti. Direi una doppia immagine. Per reinterpretarmi, per ricomporre le mie radici, penso. E poi italiani di ritorno o argentini di origine garantita e controllata, meglio Oriundi...sì dai su, come dire, sì facilitati dai documenti. Sradicamento e ricerca affannosa di prove per riabilitare più identità sotto pelle, dicono.
Ricordo, l'essere lontani e abitare l'altrove. Patria di riserva si dice. E non devo imparare a ballare il tango, ora. Scrivere per non essere esclusa o estranea ma per rimanere migrante. Spaesata forse. Doppia cittadinanza o risorsa identitaria, chiedo. Scrivere, ancora, tra lo spazio intorno e lo spazio interno per esplorare le mie traiettorie. Abitare la memoria per mantenere i miei e i tuoi ritorni.
Ci sono volte, anche ora, in cui fatico a ricordare. Tutte le volte ho molti rimpatri.


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 Oggetto del messaggio: Igiaba Scego (Il Manifesto 29/12/07)
MessaggioInviato: 04 gen 2008, 02:57 
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Foto: Igiaba Scego. Classe 1974, italo-somala. Il suo nome in arabo significa risposta. Lo ha scoperto perché tutti gli arabofoni fanno sempre un mucchio di battute sul suo nome. Lei risposte però non ne ha. Ha tante domande, parecchi dubbi anche. Scrive molto. Il suo romanzo «Rhoda» (Sinnos) lo consiglia ai duri di stomaco, invece sui racconti ha messo il bollino
verde, per tutta la famiglia (due nella raccolta «Pecore nere», Laterza). La sua ultima fatica è «Quando nasci è una roulette» (Terre di mezzo) curato insieme alla collega Ingy Mubiayi. Nel 2008 uscirà per Laterza un suo racconto sull'amore. Collabora con i compagni del manifesto, Internazionale e ha la rubrica «I colori di Eva» su Nigrizia. Di recente ha scoperto che i baffi di Groucho Marx sono finti. Per lei è stato un duro colpo.

Linciaggio di provincia
Igiaba Scego


La pace è stata fatta a pezzi il giorno 21 novembre ore 11.05, luogo: piazza Roma. La pace è stata fatta a pezzi da tutta la cittadinanza. Nessuno sembra al momento pentito. Nessuno si è presentato alla questura, che detto a bassa voce è stata un po' a guardare.
Sono passati già molti giorni. Ora sono le 20.30 di parecchi giorni dopo, mancano venti minuti alla fiction in costume della televisione di stato, le zuppe sono calde nei piatti fondi, il pane in attesa di essere azzannato. Sembra che nessuno si sia accorto che una mattina la pace ha rischiato di morire. Tutti aspettano la cena, la fiction, forse la scopata settimanale. Nessuno si sente colpevole. Forse perché lo sono tutti, in fondo.
Che quel 21 novembre sarebbe stato particolare lo si poteva intuire da due fatti, che col senno di poi gettano una luce sinistra sull'accaduto. Primo fatto: il giornalaio era chiuso. Secondo fatto: qualcuno aveva sputato dentro il cappuccino di Hamid. Ma non uno sputo qualsiasi, da catarro per esempio, no niente catarro. Quello era uno sputo rabbioso impregnato di sangue e vendetta. Uno sputo che faceva venire gli incubi notturni e l'eiaculazione precoce. Una roba da non scherzarci troppo sopra. Sullo sputo torneremo però, non dobbiamo precorrere troppo i tempi della scrittura. Esaminiamo prima la faccenda del giornalaio, senza un'analisi adeguata tutta questa storia non avrebbe senso.
Alfonso, così si chiama l'edicolante, non chiude mai, nemmeno la domenica. Non crede nella messa. Però se qualcuno gli chiede un giudizio, lui ti dice che preferisce di gran lunga Wotylaccio al Pastore tedesco. Perché, a detta sua, «quello almeno aveva i coglioni». Ogni volta che dice questa frase storce la bocca in un sorriso malizioso. Quella mattina Alfonso era chiuso quindi. Serrande abbassate, serrate come le cosce di una vergine. Hamid quando arrivò in piazza e non vide la stazza di Alfonso coprire il panorama si preoccupò per lui. Pensò «sarà mica morto? Che Allah non voglia...». Hamid è uno che scomoda il suo Dio anche per gli infedeli, è uno buono, uno convinto che Dio è di tutti e non ha preferenze. Dopo la preoccupazione arrivò inaspettata un po' di ansia. Per i giornali pazienza, quel giorno avrebbe fatto a meno. Ma delle figurine, di quelle come faceva a stare senza? Quelle dannate figurine stavano diventando una dipendenza ormai. E dire che aveva cominciato quasi per scherzo, un po' per deridere la sua ragazza: Tozzi Mariella, anni 39, studi classici, 12 esami fatti alla Sapienza, una cinquecento usata, cannabis per lasciare da parte il dolore. Stava con quella donna da quasi un anno e mezzo. Hamid non ci avrebbe scommesso niente su loro due insieme per un anno e mezzo. Nemmeno un dollaro falso. Era diffidente all'inizio, per le differenze o meglio perché gli altri gli facevano notare le loro differenze. Lei usava cannabis lui no; lei aveva studiato latino e greco, lui sapeva il wolof e l'arabo; lei aveva molte carie, lui mai avute; lei ascoltava Guccini, lui sempre Alpha Blondy. Però quando facevano l'amore diventavano una cosa sola e durante l'orgasmo lui per farla ridere balbettava la locomotiva che si era imparato (male!) un giorno che aveva navigato in internet più del solito. Da fuori la gente diceva che lui era troppo alto per lei. O diceva che le tette di lei erano più grandi della faccia di lui. Di loro nessuno mai diceva «siete una bella coppia», ma poco importa. Loro erano davvero una bella coppia, la più bella del mondo e ci dispiace per gli altri. Nella cittadina dove abitavano nessuno stava in una bella coppia. Era tutto un litigio, un mettersi le corna, rinfacciarsele, gridare, sbraitare, stare male, deprimersi, piangere, vomitare. Però lo si faceva in modo asettico, non perché realmente l'altro o l'altra o l'altro erano la priorità. Lo si faceva perché l'altra persona era un possesso e basta, come Antigua un tempo era stata della corona britannica. Si difendevano le frontiere coloniali, l'amore c'entrava poco e niente. Quella tra Hamid e Mariella invece non era una relazione coloniale. Era una vera relazione. Tra di loro non c'era solo un passaggio di spermatozoi. C'era molto di più. Una vagina accogliente, un pene gentile, un letto pieno di storie. Erano gli unici nella cittadina a tenersi per mano. Era per amore quindi che Hamid aveva cominciato quell'album di figurine. «Ti ho portato un regalo», disse lei baciandolo in bocca con un po' di lingua. A lui naturalmente gli venne un po' di voglia, però le aveva preparato il mafe per la cena e lei adorava quel mafe pieno di arachidi. Si tenne la voglia per dopo. Mariella tirò fuori un libretto blu con un tipo dal collo lungo e il pugno chiuso. «E' tuo - sorrise - l'album di famiglia, figurine rosse di anarchici, pazzi e comunisti». «Ma non sono un bambino», replicò lui un po' stizzito. «Lo sei, Lo sei. Lo siamo tutti». Ci mise due giorni a convincersi Hamid. Due giorni e due figurine, la numero 167 e una misteriosa con un punto interrogativo in mezzo al cuore. Quelle due figurine non le aveva mai conosciute, ma lo zio Baba sì. Lo zio in Africa aveva conosciuto tutti, persino il Ras Tafari Macconen «ma non mi sono inginocchiato come facevano gli altri, sono un buon mussulmano è quello comunque era un uomo, piuttosto tappo anche». Era un buon mussulmano, ma il buon Baba a Dakar trovava sempre qualche bianco che gli allungava una birra, che riposi in pace il buon zio Baba. Fu per il ricordo di quello zio scapestrato, per il ricordo di Sankara e Cabral che Hamid cominciò a comprare figurine.
Prima ogni tre giorni una bustina, poi dopo, quando era chiara e conclamata la sua dipendenza, anche due bustine al giorno. «Sembri un eroinomane», diceva scherzando lei, ma lui era così che si sentiva il più delle volte. Voleva finire quell'album, perché aveva fatto una promessa a se stesso. Una volta finito avrebbe chiesto a quella donna che ogni notte lo completava di fare un bambino. Una piccola stella che li avrebbe illuminati nel cammino che rimaneva loro da vivere. Erano giorni che accumulava doppioni. Aveva ormai 7 Che Guevara, tre Duccio Galimberti e di Frida Khalo non ne poteva più, la trovava con i suoi baffi alla Groucho Marx in quasi tutte le bustine. Alfonso, l'edicolante, lo prendeva in giro per quella sua mania. «Ma non ti sembra un po' assurdo alla tua età? E poi Hamid già qui sei l'unico extracomunitario che ci diventi anche l'unico comunista? Ma scusa un po', toglimi la curiosità, ma a voi Zulu è arrivata sì o no la notizia che il comunismo è finito?». Hamid intanto continuava. Non badando ai commenti di Mariella, dell'edicolante, dei clienti del bar Pizzo in piazza Roma. A lui importava solo di una cosa ormai... finire l'album.
Fu tre giorni prima del fatto che è poi il centro della nostra questione (non ve lo siete dimenticato, vero?) che Hamid attaccò solennemente la sua penultima figurina, la numero 79, Buenaventura Durruti, un sindacalista e anarchico spagnolo che a dispetto del nome, di avventure ne passò sì parecchie, non tutte belle, non certo l'ultima che lo uccise nell'assedio di Madrid, durante la guerra civile. Ora mancava solo la 57. La didascalia diceva: «Intellettuale russo, aderì alla fazione bolscevica e dopo l'Ottobre si dedicò alla propaganda sovietica. Commissario del popolo per l'educazione è sua la prima campagna contro l'analfabetismo e la riforma della scuola. Su linee rigidamente leniniste». Hamid voleva sapere il nome di quel tizio che ancora mancava all'appello. Ma come ti chiami numero 57? Per questo fece qualche ricerca su Internet, consultò Google, Yahoo, la Bibbia Wikipedia, i siti anarchici, quelli postsovietici, i nostalgici, i maniaci di figurine come lui, chiese persino ai fascisti...seguendo la logica «forse il nemico mi conosce più di me». Alla fine pensò di telefonare al manifesto, al giornale che gli stava creando tutte quelle angosce da collezionista consenziente. Si ricordò solo dopo che erano passate le tre di notte e che forse non avrebbe trovato nessuno in redazione.
Questo tre giorni prima dei fatti. Mentre Hamid era perso dietro le sue figurine, i suoi sogni di futuro padre, le sue stelle, i suoi anarchici, il mondo dall'altra parte continuava a girare e a volte a marcire. C'era stata un'alluvione in Bangladesh, Chavez era andato a incontrare i nababbi del petrolio, in Somalia la guerra civile peggiorava, la Bellucci era sempre molto bella. Bin Laden in compenso non aveva detto niente, nessuna videocassetta dove lui sembrava un pupazzo di gomma. Nemmeno Bush diceva un granché, in compenso Hillary e Obama si gettavano merda tanto per abituare la gente che nulla sarebbe cambiato. In Italia poi era successo di tutto, il razzismo cresceva, si cercavano capri espiatori. I rumeni erano tutti stupratori e anche i neri lo erano. O almeno così dicevano i telegiornali del governo e quelli dell'opposizione. Meredith era stata ammazzata, violentata. Invece di avere pietà per lei tutti nuotavano nelle sue mutande imbrattate di dolore. È stata la coinquilina? Si, no, anzi boh? Certo c'entra pure quel suo ragazzo che sembra un secchione invece è un somaro. Si l'avranno cavalcata in due. No, ma che dici....l'avrà fatto Lumumba, hai visto com'è grosso? Significa che ha un grosso appetito! Ma sei matto, Lumumba...ma se...e via discorrendo. Mariella guardava il suo Hamid intento ad attaccare figurine. Per un secondo ebbe paura per lui. Si toccò la pancia. Non le scendevano, il ritardo era di parecchio ormai. Mirella cominciò a pregare Dio. Lei che era atea cominciò a salmodiare: «Oh Allah fa che non sia stato Lumumba. Ti prego fa che non sia stato lui».
Dopo poco il telegiornale annunciò con fanfare e tamburi che il colpevole era certo Rudy Hermann Guede, che si erano trovate tracce organiche di lui nel bagno. Mirella ebbe ancora più paura, questo Rudy Hermann Guede le sembrava anche più nero di Lumumba. Le città italiane erano sul piede di guerra. Gli italiani «autentici» gridavano alla vendetta. Dalle parti di Hamid e Mariella era stato Lorenzo Rotulo, il meccanico e ideologo destrorso del paese, a radunare tutti quelli che contano al bar della piazza. Lorenzo era di poche parole, ma incisive: «Dobbiamo mandare via gli extracomunitari». Qualcuno lo corresse: «Devi usare il singolare, da noi c'è solo Hamid». Qualcuno provò a difenderlo anche «è un bravo ragazzo», ma la difesa era in minoranza. La mattina dopo Lorenzo sputò dentro il cappuccino di Hamid. Era il segnale. Il via al linciaggio. In file ordinate uomini, donne, bambini, cani si avventarono su di lui, lo portarono fuori dal bar, gli strapparono i vestiti di dosso, lo legarono ad un lampione. Era come uno zampone di natale prima di essere azzannato. Croci, pali, fuochi, cappucci. Sembrava un film in costume, mancavano solo Mummy e Miss Rossella O'Hara. Addosso tutti con unghie, oggetti, denti, calci, parole. Hamid bavoso e sanguinante per terra sognò la figurina numero 57 rantolando istanti di vita. Mirella lo trovò ancora rantolante. Aiutata da un amico comune, venuto da fuori, lo trasportò d'urgenza in un ospedale, ma non da loro, in un'altra città, la stessa dell'amico.
Ci è rimasto parecchi giorni lì dentro Hamid. Però ora è felice. Potrà camminare di nuovo dicono i medici. Mirella è incinta. E poi il primario, anche lui fanatico collezionista, gli ha dato la figurina numero 57. Ora Hamid sa come si chiama la sua ossessione. Ha due baffi scuri, un'aria piuttosto severa e l'unico orecchio visibile a sventola. Numero 57: Anatolij Lunacharskij.
PS: per l'aggressione di Hamid non è ancora stato arrestato nessuno, questo ve lo dico per la cronaca.
PS2: il figlio quando nascerà non si chiamerà Anatolij. Questo sempre per la cronaca.


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