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 Oggetto del messaggio: Tahar Lamri (Il Manifesto 28/12/07)
MessaggioInviato: 04 gen 2008, 03:00 
Sanatoria

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Lui non è una seconda generazione, ma ho deciso che ve li metto tutti. Bacio

Tahar Lamri è nato ad Algeri nel 1958. Laureato in Legge, vive a Ravenna dove svolge attività di consulente per il commercio con l'estero e di docente di lingua e letteratura araba presso l'Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente. Tra le sue pubblicazioni «Le voci dell'arcobaleno» e «I sessanta nomi dell'amore» (Faraeditore). E' stato il primo vincitore del concorso letterario Eks&Tra con il racconto «Solo allora sono certo potrò capire», pubblicato anche nell'antologia «Mediterranean Crossroads» (Fairleigh Dickinson University Press, 1999)


La parola al popolo: moschea sì o no?
Tahar Lamri


Fiumi d'inchiostro sono stati versati sull'impatto della televisione spazzatura sulla società, ma non ho ancora letto qualcosa di completo e circostanziato sulle società modellate dalla televisione, quando ad esempio si assiste a una specie di monologo collettivo e si cancella il confine fra le parole dell'esperto di turno e quelle qualificate «da bar» di una volta, o sul fatto che viene promulgata una bella legge sulla tutela della privacy mentre si assiste ad intere frange della popolazione che non vedono l'ora di andare a raccontare i fatti propri in diretta. La televisione, e di conseguenza anche la carta stampata, calpesta i diritti dell'uomo senza freni, e ha creato anzi una specie di assuefazione dalle conseguenze incalcolabili. «Hanno risposto in ventimila», recita uno spot pubblicitario per la partecipazione a un noto programma televisivo che promette di lanciare giovani ballerini e cantanti. «Ventiduemila ragazze si sono presentate per la selezione delle veline». Cifre che fanno paura. Nessuno si scandalizza per il lavoro dei minori in televisione, eppure sono ritmi massacranti quelli della pubblicità e della tv. Se invece si scopre in qualche regione del sud un padre di famiglia che si fa aiutare nel suo lavoro dal figlio minorenne allora l'opinione pubblica, trascinata dalla televisione, diventa spietata. Si sono create nuove forme di rassegnazione. Rassegnazione che ha generato, in Italia più che altrove nelle democrazie consolidate, una specie di stato di calamità culturale e un panico morale perenne che chiede a gran voce uno Stato penale e punitivo. In altre parole: il linguaggio messo in cortocircuito dalla televisione.
Sono arrivato in Italia nel 1987. Quell'anno ancora la parola aveva valore. Infatti, due giorni dopo il mio arrivo, ho preso l'autobus per andare a vedere il mare, non molto distante da Ravenna città. Al ritorno stavo aspettando l'autobus, c'era anche un anziano che aspettava. A un certo punto quel signore mi rivolse la parola poi, vedendo che non capivo ciò che mi diceva, si mosse verso di me, prese la mia mano, alzò la manica della mia giacca e guardò l'ora nel mio orologio. Questo è stato per me il più grande benvenuto in Italia. Alcuni giorni dopo, un sabato mattina, andai in piazza e lì vidi tanti anziani in piedi che parlavano. Tornai diversi sabati di fila e lo scenario era sempre lo stesso. Poi mi accorsi che quella piazza era il luogo del mercato senza merci. I contadini arrivavano là, si incontravano, chi aveva da vendere una mucca o un toro ne faceva la descrizione e l'acquirente comprava sulla base di questa descrizione. La parola era sacra e nessuno si sognava di fregare il prossimo. Poi imparai piano piano l'italiano e cominciai pure a tracciare qualche racconto. All'inizio degli anni '90, dove abito, c'era una signora anziana che metteva la sedia e stava lì tutto il giorno a leggere rotocalchi popolari. Era bracciante e non aveva mai visto un nero. I miei amici erano tutti senegalesi e la prima volta che venne a trovarmi uno di loro, disse, la sera: «Oggi ho visto un nero, ma era talmente nero, così nero che aveva persino le pieghe del collo nere!». Interi trattati di sociologia non possono riassumere il passaggio epocale come ha fatto quella signora in poche parole, abituata a vedere i contadini che si abbronzavano nei campi d'estate, ma le pieghe dei loro colli rimanevano bianche. L'incontro con il diverso non la spaventava e con semplicità faceva il parallelo fra la sua storia e la nuova Storia che si stava profilando. Aveva le parole per dirlo: ho visto una persona intimamente diversa da me. Vi racconto tutto questo perché ora io mi trovo spaesato, letteralmente spaesato. L'infanzia determina il viaggio, si dice e la mia «infanzia» nella lingua italiana è fatta di questi aneddoti, di questa mano tesa, di questo dialogo muto e intenso.
Ora invece mi sorprendo a pensare che forse gli ideali di democrazia, di rispetto dell'altro e di accoglienza siano al di là della realtà di tutti i giorni e che forse è ora di ridefinirli, così non si inganna se stessi né quelli che guardano con invidia questo nord del Mediterraneo come l'eden dei diritti dell'uomo e del rispetto. Ecco perché.
«Fra le emergenze istantanee da consumare calde sui mass-media, meglio se riscaldate e bollenti, ce n'è una buona per tutte le stagioni, l'Islam che si inserisce a sua volta in una delle emergenze solubili in tutti i liquidi: l'immigrazione». Questa e altre riflessioni come quelle accennate sopra, vagavano senza meta nella mia mente aspettando Cesare Sama, fondatore dei «Gruppi Laici» a Ravenna in un bar del centro, riscaldandomi le ossa ai raggi del tiepido sole autunnale di questo fine ottobre, altrimenti caldo, se non bollente, su altri fronti.
A leggere i giornali locali questi giorni sembra che la democrazia sia in pericolo, che le radici cristiane siano in pericolo, che la piadina romagnola sia in pericolo, che il San Giovese stia per diventare merce proibita. Tutto questo perché la comunità islamica residente in città ha espresso il desiderio di costruire una moschea. Questo annuncio ha messo in subbuglio il consiglio comunale, l'opposizione di destra ha gridato allo scandalo e i soliti «furbetti del quartiere» hanno chiesto a gran voce: «La democrazia è il potere in mano al popolo. Che sia indetto un referendum: moschea sì, moschea no!». Si è invocata la sicurezza. I giornali hanno abboccato e la moschea che esiste in città da ben dodici anni, senza che abbia mai creato problemi, è diventata di colpo la fonte primaria di insicurezza. Insicurezza immaginaria s'intende.
Leggendo certi giornali, mi venne in mente una vecchia barzelletta sovietica che recita pressappoco così: «Un giorno un tipo comprò la Pravda e dopo averla letta, si recò al mercato dove comprò un chilo di sardine. Siccome c'era penuria di carta da imballo, chiese al venditore di imballare le sardine nel giornale, La Pravda. Dopo pochi passi, il giornale si bagnò e le sardine scivolarono cadendo a terra. Allora il tipo guardò le sue misere sardine e disse, rivolgendosi al quotidiano: sei capace di contenere tonnellate di bugie ma incapace di contenere un chilo di sardine». La carta della Pravda, non so se ve lo ricordate, era spessa, sovietica appunto, non come la carta dei giornali italiani.
A complicare le cose in città, c'è stata la proposta di modificare lo statuto del comune per permettere l'elezione di due consiglieri aggiunti della Rappresentanza dei cittadini stranieri. Devo dire che la rappresentanza esiste dal 2003, ma ha, appunto, il limite di essere una rappresentanza quasi formale. Di qui la proposta dei consiglieri aggiunti. I membri di quella attuale sono senegalesi, albanesi, nigeriani, filippini... voglio dire a maggioranza cristiana. Ma siccome c'era da modificare lo statuto del comune, l'opposizione, facendo confusione fra moschea e Rappresentanza, ha parlato di «occupazione» del comune da parte degli islamici in vista di occupare il paese. Che gli «islamici che occupano la Rappresentanza sono razzisti e sessisti». Così ogni giorno un manipolo di persone che rappresentano poco o nulla si presentano come i mediatori dell'opinione pubblica e come i garanti della democrazia, annegando l'intelligenza di una intera città sotto l'acqua alta dell'idiozia pura e semplice. I cittadini, non sempre pronti a separare le questioni immaginarie «dibattute» con tanto chiasso dai problemi reali, hanno finito per soccombere alla paura
Da un giorno all'altro nelle piazze, nei bar, nei ristoranti, nei circoli e in ogni luogo pubblico e ogni casa privata, in coro, la questione moschea e immigrati è diventata il leitmotiv ricorrente: «Ah bè, che vadano a lavorare. Non ce l'abbiamo noi la casa e dobbiamo dare a loro una moschea», (signora impellicciata malgrado l'effetto serra, proprietaria di quattro case di cui una affittata a prezzi di usura a studenti universitari, per lo più terroni). «Ma dove credono di essere questi? Nascondono le loro donne col velo poi vogliono anche la moschea» (chiave di lettura: «anche» - signore progressista forte dei dibattiti di alcuni anni fa per la Cosa di Occhetto, i diritti delle donne sono così di moda). «Sono vent'ann che sto a Ravenn e mi chiaman ancora marochen e questi pretendon di arrivar la matten e dop mezz dì aver tutto» (meridionale che rinnega le proprie origini, anche di immigrato, facendo l'elisione delle vocali finali per sembrare autoctono).
Insomma avete capito che il dibattito si è fatto acceso e io sono qui ancora ad aspettare Cesare. Perché Cesare? Perché nella baraonda fortemente e involontariamente comica, i gruppi di opposizione si sono scatenati e si sono presentati ai comizi indetti da loro imbavagliati, dopo che erano stati multati per aver diffuso l'inno di Mameli senza autorizzazione e a decibel che sfidano ogni udito: «Ecco si multa il nostro inno! È finita la democrazia! L'amministrazione multa i bravi cittadini e premia gli islamici!». Il promotore della moschea invece ha deciso di non parlare più dichiarandosi a «digiuno verbale» (insomma bavaglio e contro-bavaglio). Ma quando Cesare ha sentito che alcune persone hanno piazzato dei banchetti e stanno raccogliendo firme sul seguente quesito «Moschea sì. Moschea no», da persona laica è insorto. Quindi lo sto aspettando per andare all'ennesima conferenza stampa convocata da lui. Ennesima perché gli oppositori alla moschea continuavano a parlare a getto continuo, i giornali a getto continuo riportavano le loro dichiarazioni e per contrastarli non rimaneva altra scelta che indire comunicati stampa quotidiani. Alla fine tutto questo chiasso ha attirato l'attenzione del Tg3 regionale e lì c'è stato il boato, l'esplosione, la dichiarazione orgiastica: «Sì possono avere la loro moschea, ma questo luogo deve essere piccolo per un massimo di 40 persone e deve essere monitorabile 24 ore su 24 dalle forze dell'ordine», ha dichiarato uno e un altro gli ha fatto eco: «La moschea è estranea alla nostra cultura. Io chiedo la reciprocità con l'Arabia Saudita e l'Iran!». Ve l'immaginate Ravenna che tratta con l'Arabia Saudita e l'Iran per le reciprocità? «I vostri islamici hanno costruito quattro moschee con minareti più alti dei nostri campanili, chiediamo quattro chiese una alla Mecca, un'altra a Medina...».
Un quotidiano allora ha pensato di fare un test di cultura generale al vicepresidente della Rappresentanza, Sokol Palushaj, un albanese e bisogna precisare cattolico. Promosso Sokol in cultura generale, il giornale esce col titolo «Sokol integrato». Non contento di questo risultato, il quotidiano fa un test di cultura, chiamata per l'occasione degli immigrati, agli eletti locali. Risultato: alla domanda chi è il Dio dei musulmani, molti hanno risposto Maometto, la fatwa nessuno sa cosa vuol dire, diversi hanno risposto che Maometto è vissuto prima di Cristo, che La Mecca si trova in Iran (uno ha risposto che si trova a Gerusalemme!). Così siamo entrati in pieno nella sagra di paese. La cultura degli immigrati si è ridotta a qualche nozione di storia islamica e non sapendo cosa fare i consiglieri di destra che si oppongono alla modifica dello statuto del comune si sono impuntati: «La vostra Rappresentanza deve avere il 50% di eletti donne, perché gli stranieri trattano male le donne» al che Sokol, sempre pronto, ha risposto: «Guardate che su quaranta consiglieri e assessori ci sono soltanto sei donne, quindi non potete venire a farci la predica!».
Un clamore proveniente dal bar attirò la mia attenzione, qualcuno ha alzato il volume della Tv. È scoppiata l'emergenza rumeni. Un'emergenza nazionale, non come quella che vi ho descritto, per quanto sia locale. Quando ho visto uomini politici che si fanno chiamare in televisione «onorevoli» passeggiare sul luogo del delitto, ho deciso di non aspettare più Cesare. Me ne andai la mort dans l'ame.


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MessaggioInviato: 04 gen 2008, 03:04 
Sanatoria

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Mihai Mircea Butcovan. E' nato nel 1969 in Transilvania, Romania. In Italia dal 1991, vive a Sesto San Giovanni e lavora a Milano come educatore professionale. Vincitore nel 2003 del premio «Voci e idee migranti», ha pubblicato il romanzo «Allunaggio di un immigrato innamorato» (Lecce, Besa 2006) e con la raccolta di poesie «Borgo Farfalla» (Eks&Tra 2006) ha vinto, nel 2006, la XII edizione del Premio Eks&Tra.



In Padania, sognando Mutu
Mihai Mircea Butcovan


«Effettivamente, se bruciassero le tende degli zingari, stasera, domani potremmo vincere la partita di calcio... Se brucia anche la casa di Andrei, che è fortissimo, domani non verrà a scuola».
Questo pensavo ieri sera, dopo aver origliato le discussioni da grandi che mio padre faceva nella tavernetta con i suoi amici. Mi aveva detto: «Andrea, vai in camera tua che dobbiamo fare discorsi da grandi!» Ero già molto agitato perché oggi si doveva giocare ancora, a scuola, una partita del torneo di calcetto.
Ieri pomeriggio mio padre aveva occupato il telefono per più di due ore. Appena metteva giù la cornetta, il telefono squillava di nuovo e papà urlava: «Adünansa... ci troviamo da me, prima di cena, vedi di trovare anche Giuanin il Viscunt e il Vunsc, Magher, Ratt, Tigher, Diaul, Busciun, Quader, Esercent, tucc!».
Tra tutti i soprannomi che avevano gli amici di papà, Esercent era quello che mi piaceva di più. Sembrava il nome di un rapper d'oltreoceano. Gli amici chiamavano mio padre Parabula, forse perché ogni volta che iniziava un discorso diceva: «Par esempi...». Invece la mamma diceva che lo chiamavano così per via del suo impegno politico. E mia madre chiamava Parabula anche lo zio, il fratello del papà, che è nel sindacato.
Ieri sera erano tutti lì, tranne lo zio, nella tavernetta di sotto, e Giuanin diceva: «Dobbiamo mandarli via quei baluba. Quelli che rubano nelle case e rubano i bambini e ammazzano la gente... zingari comunisti mangiabambini...». Il mio sogno è quello di fare il calciatore. E sogno di fare gol come Mutu. Lo avevo visto quando ero andato allo stadio con il nonno, a San Siro. Il nonno m'aveva detto: «Si va allo stadio, Andrea. Per vedere il bel calcio e fare festa».
Oggi invece, a scuola, si doveva giocare contro quelli della sezione B, fortissimi. E sono diventati ancor più forti da quando è arrivato Andrei, il rom. Io invidio Sergio, non mi vergogno e gliel'ho detto in faccia. Sergio è il mio amico d'infanzia, il mio vicino di casa e compagno di classe fino all'anno scorso. Poi ha cambiato sezione da quando mio padre aveva detto, alla riunione coi genitori, che la sezione A doveva rimanere degli italiani e non si dovevano inserire ragazzi stranieri. «E nemmeno terroni...», aveva aggiunto papà a denti stretti mentre si sedeva. Ma ormai gli altri genitori l'avevano sentito ed il padre di Sergio ha deciso di spostare suo figlio in un'altra classe.
Sergio fa le vacanze estive dai nonni a Palermo. Ha in classe un cinese, un marocchino, due filippini, un romeno e due zingari rom. «I rom non sono romeni», dice Sergio. Glielo ha spiegato Gabriel, il compagno romeno. Ma Andrei e Sergiu, i due rom, vengono dalla Romania. Giocano benissimo a pallone. Arrivano ogni giorno a scuola con un pulmino. Vivono in un campo nomadi in delle tende provvisorie. Li hanno mandati via dalle baracche di un altro campo. «Sono un po' vivaci, come noi» dice Sergio. E sono fortissimi nella corsa e nel calcio.
Sotto, nella tavernetta, mio padre stava urlando parolacce, ieri sera. Domenica gioca il Milan, si va allo stadio... Anche lì papà dice le parolacce... Ieri sera papà ha tirato fuori la maglietta con la scritta: Tegn dur contro il sud magrebino. «Non si sa mai», ha detto alla mamma. Quella maglietta papà l'ha comprata qualche anno fa, ad una festa dove erano tutti vestiti di verde, come dei marziani o come la squadra dell'Irlanda. C'era un rito dell'acqua e tutti che gridavano: «Fuori l'Italia dalla Padania, fuori la Padania dall'Italia, e fuori l'Italia dall'Europa». Poi col tempo hanno cambiato, gridano lo stesso, ma cose tipo: «Fuori gli zingari dall'Italia, e tutti i baluba a casa loro».
Ricordo che c'era quella volta un uomo col fazzoletto verde che urlava al microfono: «Noi quella gente non la vogliamo, padroni a casa nostra, stiamo bene da soli...». Io pensavo che è triste vivere da soli. Si era agitato per un'ora quel signore col microfono. E tutti si agitavano con le bandiere quando lui alzava la voce, diciamo ogni due minuti circa. Aveva sbagliato qualche congiuntivo il signore col fazzoletto, ma ho capito che non era il momento per farglielo notare a mio padre.
Papà era impegnato a urlare, con la bandiera verde legata al collo e con il volto rosso carminio: «Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne». C'erano tutti a urlare e agitare bandiere: Giuanin il Viscunt, il Vunsc, Magher, Ratt, Tigher, Diaul, Busciun, Quader, Esercent. Col ritmo un po' rap. «Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne, Se-ces-siò-ne». Il via alle urla l'aveva dato ancora l'uomo col microfono. Quello con la voce rauca, quello che poi mio padre aveva messo sul desktop del computer, a casa. La foto di quell'uomo vestito da Zio Sam con la scritta: «Mì te voeuri!»
Ogni volta che accendevo il pc mi ritrovavo la faccia di quell'uomo, con il cilindretto, il frac e il dito puntato minaccioso: «Mì te voeuri!». Altro che uomo nero. L'uomo verde ad ogni accensione del computer: «Mi te voeuri... mì te voeuri!» Era diventato l'incubo dello schermo, il tormento del monitor. «Mì te voeuri...?». In qualche modo l'uomo verde se l'era preso, mio padre. Infatti papà ogni tanto tornava la sera in garage vestito di salopette, come un imbianchino, sporco di vernice bianca e verde. E sentivo che diceva alla mamma che lo aspettava con il vin brulé: «Che ciulada sul cavalcavia!».
Scriveva sui muri di cemento cose tipo «Padania libera, Padania ai padani» e altri slogan sentiti al rito dell'acqua. Lo zio sindacalista, prendendolo in giro, le chiamava «installazioni artistiche». Non penso che lo chiameranno mai alla Biennale di Venezia per una scritta da cavalcavia tipo «romaladrona, padaniastato»...
Per il compleanno il papà aveva regalato alla mamma, tempo fa, un «elegante set cucina sale pepe serigrafato con sole delle alpi», ordinato su Internet. La mamma aveva detto: «Adesso anche i miei regali sono diventati sovvenzioni per il partito». E ha messo il suo regalo nella tavernetta, per le riunioni degli amici di papà. Che a volte giocano al Risik Padan. E bevono grappa «Va' Pensiero».
Papà dice che il comunismo ha fatto tante vittime e che non bisogna falsificare la storia. Lo zio gli risponde che forse è vero ma neanche bisogna dimenticare quando noi andavamo in America. Il papà dice che lo zio andrà all'inferno per quel forse e che noi però non eravamo «con le toppe al culo». Lo zio risponde: «Allora per chi fate la toppa Sole delle Alpi?». Mio padre sotto la doccia canta: «Va' pensierooo...». Che poi lo zio gli dice: «A furia di lavà el penser... ghe n'è pù... l'è andaa...». La mamma a volte fa dei lunghi sospiri e dice che quei due, fratelli, prima o poi si prenderanno a botte.
Lo zio ha sposato una pugliese. Papà chiama anche lei, quando non c'è la zia, baluba. «Maschile o femminile, sempre baluba è», mi disse papà quando gli chiesi se anche mio cugino fosse un balubo. Il papà dice: «Ognuno a casa sua». Che tristezza, ognuno a casa sua! E ieri sera dicevano, nella tavernetta, gli amici di papà: «Organizziamoci, difendiamo il nostro... fratelli sul libero suol, meniamo i baluba... contro i baluba... uniamoci!». E poi sono usciti tutti insieme, ringraziando mia madre per la torta. E mia madre scuoteva la testa, preoccupata.
Allora se Andrei non si fosse presentato a scuola per il torneo noi avremmo sicuramente vinto... Andrei gioca scalzo ed è fortissimo. Sogna di fare gol come Inzaghi. Un giorno, all'intervallo, quando Sergio me lo ha presentato, gli ho detto: «Ciao, sono Andrea, quasi come Andrei. Ma tu, se giocasse Italia contro la Romania, chi tiferesti?». Andrei mi aveva risposto «la Romania», anche se dicono che lui è rom. Però viene dalla Romania. E aveva aggiunto: «Ma comunque deve vincere il migliore. E se nessuno migliore va bene anche uguale». «Uguale?» ho chiesto io perché non capivo. «Sì, uguale, cioè pareggio», m'aveva risposto Andrei.
Ma oggi non si è giocata la partita del torneo, a scuola. Andrei è arrivato tardi a scuola, lo hanno portato col solito pulmino delle persone grandi, preoccupate. Anche le prof erano preoccupate.
All'intervallo Andrei raccontava a Sergio: «Oggi tenevo stretto per mano mio papà... hanno bruciato le nostre tende... non si sa chi è stato. Papà dice che è gente razzista... "razzista" sembra cattivo... se brucia le tende in cui dovevamo abitare... forse lo è... era arrabbiato mio padre, voleva dire tante cose ai giornalisti ma secondo me sbagliava qualche parola. Io imparo l'italiano, non è facile ma papà dice di studiare che così avrò più fortuna di lui nella vita e saprò anche difendermi con le parole e parlare bene coi giornalisti».
Questo pensava Andrei oggi, nel giorno della partita del torneo a scuola. E' venuto lo stesso a scuola e ci ha detto che gli dispiaceva per la partita ma anche perché ora sentiva dire che si doveva traslocare di nuovo, proprio sotto Natale, come un anno fa, perché si diceva che la gente qui non li vuole. Proprio ora che suo padre aveva trovato un lavoro e sua madre era contenta perché non si doveva più andare in giro a chiedere la carità, come qualche mese fa.
E ci ha detto che ieri sera erano pure felici, era il compleanno di sua sorella Adela, era venuto il Don, Massimone, Maria Grazia e tanti amici a portare una torta ed una bambola. Per Adela era il primo vero compleanno. Ma forse, diceva lei, non avrebbe potuto mai collezionare bambole. Traslocavano troppo spesso. Mi dispiaceva vedere Andrei così triste. Poi lui mi ha detto: «Se vuoi possiamo giocare a pallone insieme qualche volta, se troviamo un luogo dove giocare...».
Avvertenze per i lettori:
In quella scuola andavano anche Adela, Elena, Elisabeta, Georgia ed erano compagne di Adele, Elena, Elisabetta, Giorgia.
La faccia di quel signore vestito da Zio Sam che punta il dito: «Mì te voeuri!» esiste. E pure il Risik Padan.
E se volete sapere di più delle ciulade padane fatevi un giro in rete.
Avete fatto un po' fatica a districarvi tra Andrea e Andrei, tra Sergio e Sergiu? Affari vostri. Quella piccola differenza nei nomi vi ha disturbato nella lettura? Affari vostri.
Quella piccola differenza nei nomi racconta molte altre differenze nelle loro vite. Ma non nei loro sogni da bambini. Che sono affari nostri, di tutti. Anzi, ci riguardano.


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 Oggetto del messaggio: Chang Ya-Fang (Il MANIFESTO 5/01/08)
MessaggioInviato: 07 gen 2008, 00:31 
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made in italy

Chang Ya-Fang è nata a Taiwan nel 1973. Vive a Pesaro dove è Lettrice di lingua cinese presso l'Università degli studi di Urbino. In Italia, è stata collaboratrice del «Dizionario Universale Cinese» (uscirà a marzo 2008) e collabora con la rubrica «Italieni» del settimanale Internazionale. Ha tradotto in cinese «Sei una bestia, Viskovitz» di Alessandro Boffa (Garzanti 2002). A Taiwan, è stata redattrice presso la casa editrice Haojiao.



Con lo zaino in spalla nel «segno» dell'Italia
Chang Ya-Fang


Adoro la sensazione dello zaino addosso. Una sensazione dinamica, energetica e quasi magica che mi spinge a curiosare altrove.
La radice di questa sensazione dovrebbe risalire ai tempi della mia infanzia, a una volta che avevo letto un racconto illustrato per bambini intitolato «Vado a Praga da solo». A dire la verità, non mi ricordo di preciso la storia, solo vagamente il protagonista, un bambino di nove anni desideroso di prendere il treno per andare a trovare sua zia a Praga. Per questo primo viaggio della sua vita aveva preparato uno zaino, ed è quello che mi aveva impressionato: conteneva una camicetta gialla, una mela rossa, e una tavoletta di cioccolato marrone! Non so cosa mi abbia attratto, forse i colori, o forse il profumo che mi pareva di sentirne uscire... Comunque sia, è stato l'inizio della mia educazione sentimentale allo zaino. Immaginavo che un giorno, quando fossi stata abbastanza grande per andare altrove da sola, avrei anch'io preparato uno zaino come il suo. Uno zaino che contiene colori e profumi voleva dire un'indipendenza colorata e profumata!
È stato quando avevo vent'anni che mio padre, di ritorno da un viaggio d'affari, mi ha regalato uno zaino. È stato a vent'anni che ho fatto il mio primo viaggio da sola, con lo zaino che mi aveva regalato papà.
Un po' di anni dopo quel mio primo viaggio, con lo stesso zaino sono partita per l'Italia. Certo non mi bastava più portare solo la camicetta, la mela e il cioccolato. L'amore per la lettura s'era allargata dai racconti per bambini a quelli del mondo adulto. E in fondo allo zaino stavano i libri di Calvino.
Una delle prime volte che passavo alla dogana dell'areoporto, il mio zaino è stato svuotato. «Apri lo zaino!», mi dice una guardia doganale mentre comincia il controllo. «E il passaporto per favore». «Che cosa studi in Italia?», mi chiede dopo aver letto il motivo di studio sul mio permesso di soggiorno. Nel frattempo sta tirando fuori un po' della roba da dentro lo zaino. «Semiotica», rispondo. «Che?», continua a svuotare lo zaino. «Semiotica!», alzo un po' la voce pensando che, con tutti i rumori intorno, magari non ha sentito. «E che cosa si impara con questa materia?», mi chiede ancora. «...mmm... lo studio di segni...», la definizione piuttosto banale mi appare la più adatta alle circostanze. «Ah! Disegni. Quindi pittura fai. L'arte è bella in Italia, no? Venite tutti qui a studiare l'arte!». Dà un'occhiata ai due libri che ha tirato fuori e li getta sopra lo zaino. Mi lascia passare.
I libri di Calvino e di Eco non hanno toccato la guardia doganale italiana. Li rimetto nello zaino e sento che è diventato un po' più pesante. Gli anni trascorrono, la situazione internazionale cambia, e purtroppo cambia l'atmosfera interna di ogni singola nazione: soprattutto cambia la percezione verso uno zaino sulle spalle di uno straniero. A volte ci sono i venditori ambulanti, in giro per l'Italia con gli zaini che sono le loro bancarelle, i loro negozi e magazzini. A volte i TG italiani ci fanno invece vedere le immagini di immigrati clandestini in arrivo sulle barche: non hanno nessun documento, figuriamoci uno zaino. Ma soprattutto gli zaini vengono controllati sempre più severamente ai tanti ingressi di luoghi pubblici: il sospetto ha sostituito la curiosità, e lo zaino è pensato prima di tutto come un potenziale contenitore di pericolo.
Trascorrono gli anni, e io porto ancora il mio zaino quando sto in giro. I colori e i profumi sono diventati quelli di una donna, il rosso del vino e il giallo della luce calorosa di candela... Un cavatappi, due bicchieri di vetro e una candelina sono spesso alla rinfusa nel mio zaino, insieme a «Le città invisibili» di Calvino.
Un cavatappi in sè è pericoloso? Forse. Bicchieri di vetro e candela? Può darsi. Io però li porto nello zaino solo immaginando un giorno di incontrare qualcuno che apprezza una viaggiatrice curiosa con lo zaino alla spalla, qualcuno che mi accoglie come Kublai Khan accolse il Marco Polo del racconto di Calvino, poi mi offre una bottiglia di vino: io lo posso aprire con il cavatappi, quindi accendo la candelina e comincio a raccontare...
Sono convinta che Marco Polo portava uno zaino e Calvino non l'ha scritto.

La reticenza di una straniera
Imparare bene la lingua che si parla nel luogo dove trascorri non poco tempo della tua vita, è la condizione necessaria per costruire una delicata intimità con quel luogo. Il problema, però, è che anche dopo aver imparato bene la lingua, con grande umiltà, scopri che ci sono tante situazioni, tante domande alle quali non saresti mai in grado di rispondere: solo che, tragicamente, non si tratta di una questione linguistica.
Una volta degli amici mi hanno presentato un loro conoscente. Dopo esserci stretti la mano e scambiati il rituale «piacere», mi fa, «di dove sei?». «Sono di Taiwan». «Ah...», fa lui, «voi donne thailandesi siete bellissime!» con una fiammina bizzarra che gli brilla negli occhi.
E io...??
Che devo rispondere? Forse: «Mi spiace di non essere bella come le mie colleghe thailandesi». Oppure: «Grazie, lo prendo come un complimento!». O ancora, strizzando l'occhiolino, qualcosa tipo: «So bene che vuoi dire!». Che posso dire? Alla fine mi mordo la lingua e resto reticente. Forse gli potrei semplicemente regalare una carta geografica mondiale.
Un'altra volta, con la mia ex compagna di casa stavamo guardando insieme la televisione, un programma che raccontava la biografia di Michelangelo. A un certo punto, un po' compiaciuta della sua acuta curiosità, lei si è girata verso di me e mi ha chiesto a bruciapelo: «Voi avete un'artista cosi grande come Michelangelo?».
E io...??
Ho taciuto di nuovo. Già è difficile dare una definizione di «grande», riguardo a Michelangelo. Con che cosa lo paragoniamo? È possibile paragonargli un suo connazionale e contemporaneo come Leonardo da Vinci? È possibile chiedersi chi sia più «grande» tra Picasso e Michelangelo? Bah... Ma soprattutto, quel che mi lasciava ancor più perplessa era quel «voi». Mi chiedevo se lei volesse sapere di un grande artista appartenente alla storia dell'arte «extra-comunitaria». Esisterà? O forse intendeva «voi» in quanto «isolani taiwanesi»? Forse sono un po' cerebrale, ma la reticenza sta diventando sempre più un'abitudine di fronte a molte domande, paradossalmente dopo, e no prima di aver imparato la lingua italiana. Alla fine ho regalato alla mia ex compagna di casa un catalogo di arte dell'estremo oriente.
Attualmente di professione faccio la «lettrice di madre lingua», e perciò devo spesso rispondere alle domande che vengono fatte dagli allievi. Amo il mio lavoro e mi fa molto piacere dialogare con i giovani studenti. Ma anche qui capita che delle volte io rimanga priva di parole, e non è a causa di una scarsa preparazione professionale.
Una volta ho accompagnato un piccolo gruppo di studenti a Milano, a visitare una mostra che comprendeva da una parte una collezione di oggetti cinesi tradizionali, e dall'altra i dipinti di tre giovani artisti cinesi contemporanei. Percorrendo lentamente la mostra, a un certo punto mi sono fermata con alcune ragazze davanti a un vetrina dov'era esposta una scarpina in stoffa tutta bella ricamata. Era la famosa scarpina che veniva portata dal piede fasciato delle donne, secondo un'usanza secolare cinese che è stata ormai proibita, e di cui penso che tutti siano a conoscenza. Guardando un oggetto come questo, la cosa che ti fa inorridire e adirare è l'ingiustizia subita da un essere umano solo perché sprovvisto dell'organo biologico di riproduzione maschile! Attraverso la ricamatura raffinata e il vetro d'esposizione, sento ancora la puzza dei piedi sformati dalla fasciatura e la puzza d'ingiustizia.
«È terribile», dice una delle ragazze. Certo che è terribile, non c'è bisogno che io confermi. Subito dopo un'altra studentessa mi si rivolge e fa: «Prof, le donne orientali sono sempre cosi sottomesse, vero?». Chissà come mai la domanda è stata fatta accidentalmente proprio da lei... Era proprio lei che cinque minuti prima che entrassimo in questa sala, si è seduta in un angolino e s'è dovuta togliere le scarpe, anzi i suoi stivali - in piena estate - con la punta affilata davanti e i tacchi altissimi dietro, per massaggiarsi i suoi piedi, doloranti immagino.
Io sono rimasta muta senza sapere bene che dire. Non è abbastanza evidente che quel modello di stivali che indossa lei sia ispirato alle scarpine che stanno nella vetrina espositiva? Non sono abbastanza dimostrati gli stessi dolori (per me, basta solo guardare) e la stessa tortura fisica e psicologica per le donne, sotto la menzogna decorata della bellezza e della sensualità?
Tra i moderni stivali con la punta affilata e il tacco a spillo e le piccole scarpine che indossavano i piedi fasciati, la differenza concreta è solo il lungo pezzo di stoffa che serviva per la fasciatura. Come posso dire alla mia cara studentessa che sarebbe semplicemente meglio che togliesse quegli stivali per stare comoda (così magari sarà anche più rilassata e non farà certe domande), e che a me importano la sua sanità fisica e la sua libertà di spirito più della sua comprensione linguistica del cinese?
Ho taciuto. A forza di morderla, forse la mia lingua si gonfierà. Ma sappiate che la reticenza di una straniera, come me, non è detto che sia provocata da problemi linguistici.
In un'epoca e in un paese in cui il dialogo e la comunicazione vengono considerati i valori per eccellenza.


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MessaggioInviato: 07 gen 2008, 00:33 
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Francisca Paz Rojas è nata a Santiago del Cile nel 1974. Vive in Italia da quindici anni, si occupa di letterature straniere, teatro, poesia e multiculturalità. Ha frequentato il Csrt (Centro sperimentale di ricerca teatrale) di Pontedera (Pi). Conduce laboratori di scrittura e linguaggio teatrale rivolti a bambini e adolescenti. Traduce dallo spagnolo e dall'italiano. Fa parte della redazione della rivista Letra-Hora di psicoanalisi e cultura. Alcune sue poesie sono state pubblicate nelle riviste Il Vascello di carta, Pagine, la Mosca, il Caffè e nelle riviste on-line El-Ghibli, Saragana, Kuma, Bollettino Fuoricasa. Organizza attività culturali con l'associazione Hortense e realizza performance di azione e poesia.


Io e il cane di Alvin, nello Stato di Sicurezza
Francisca Paz Rojas


Siamo giunti al confine. Il cane di Alvin e io ci siamo separati una sera fredda e umida in un angolo di questa sfibrata città. Ora posso parlarti con il cuore tranquillo pronto ad emigrare, posso raccontarti del mio arrivo e di me. Sono giunta sulla linea bianca tratteggiata, vestita da cowboy, con un livido in fronte, dalla notte precedente, sono giunta ubriaca e inerme, come poteva essere altrimenti. Ho spostato una grande pietra dietro di me e sono scappati i vivi. Sono passati quindici anni da quella data, e una notte sempre umida e turbolenta incontrai il cane di Alvin.
Il cane di Alvin e io abbiamo vissuto due anni terribili e intensi, nel pieno dello Stato di Sicurezza. Ci abbiamo creduto e ci siamo trascinati per le strade gonfi di una tentata diserzione che non saremmo riusciti a mettere in pratica. Alvin, suo padrone, non era male, è siciliano, e quindi possiede una lingua che amo, capace di scolpire la cosa, di frustare il pensiero e di plasmare menzogna e parte del vero. E' uno che possiede il gesto, e invoca riti mentre parla. L'italiano. Quella lingua che sta strangolando, sensualmente, la mia lingua madre, che è il terzo sempre presente, l'infanzia, il segreto. La lingua della madre, che è il poeta ma non la poesia, perché questa è viva, e porta sulla punta la vergogna. La porta qui, piano, a testa bassa, non sia mai un dominio, la porto fra umori oscuri in un corpo abbandonato che si orienta fra il desiderio e la voce critica concessa dagli amici, fra la negazione e il battito di un tatto nuovo che non si può dissimulare. Lo sai, sono dimezzata. Nel giorno libero salgo sul Civico-Tram, una specie di giostra blindata guidata a cerchi concentrici dal Nettuno alla periferia, doveva essere un mezzo interetnico spaziale, ma è il solito giocattolo. Salgo per lasciare ritorcersi i pensieri, l'alambicco ha tre assi e una latitudine che ormai si sta sfaldando. Nella vena ho il materiale sull'intervento dei nazi in Cile, l'intervento degli Usa nel mio paese, l'intervento dell'intervento nel continente, tutto ciò paradossalmente tradotto al tedesco.
Da far leggere a chi forse lo sa già e continua a ignorarlo, o a considerarlo storia. Fuori la gente. Va di moda fra alcuni, l'elmetto militare, affinché non si distingua niente da nessuno, e altri con il passamontagna e pure i manichini con il passamontagna, che pur un senso ha, a dire di questa reversibile condizione dell'essere, altri ancora girano con vestiti di colore spaiato, e mamme conducono anche fino a dieci bambini vestiti a festa o con pezzi regalati, altre strattonano i loro bambini correndo dalla farmacia al parco, c'è chi ha fame, di quella che conosciamo. Mentre si corre, lentissimamente, aiutati dal traffico e dal civico T, volano sulla testa svastiche come boomerang che vanno a incrostarsi nei muri dai colori caldi di questa paziente città.
Ma dove siamo? E quando siamo? Le scanso, perché sono invisibile, o quasi, perché posso rifugiarmi nei corpi accoglienti dei miei compagni, nei miei libri, nei miei pensieri paravento, nei bar sulle bocche dei bicchieri, o insomma con l'altro con cui si fatica a non farsi abusare al lavoro. Sui muretti non ci sono più andata. E a volte si può vedere questa strana danza per schivare non solo gli oggetti che volano ma anche le parole macigno dei servizi non più segreti che infrangono le piccole parole, che scagliano divieti togliendo tanto respiro, e fanno legge di ciò che la corrompe. Il cielo oggi è limpido, e penso al seno dell'amica, alla malattia, alla mia generazione di trapiantati da un sogno di comunità ad un grande vuoto al neon, ho un sacco magico dove entro e mi collego con le lapide che non sono riuscita a salutare. Il mio futuro su un Atlantico che non ho mai visto. E tutto il resto di me si domanda del perché ostinarsi a non dare un nome al cane, e perché darglielo se in fondo si è ingozzato di tutto il male che poteva trovare sulle strade, e come se non gli bastasse, il veleno è andato a comprarlo. E perché darglielo poi se i nomi sono così rosicati? E perché io dovrei dare un nome al dolore, a un cane che non è neppure diventato un cane selvaggio ma solo un segno della rabbia e l'ombra mediocre di un patto fra gli uomini che non c'è? E soprattutto perché qualcuno non s'interessa nel cambiare il nome alla signora Cittadinanza, vecchia storpia, con un ventre che non contiene più il suo significato e rischia di annegare con tutte le creature dentro.
Io non mi faccio addomesticare, non posso, sono troppo una bestia per dover naturalizzarmi ancora, che non si può. Vorrei da bestia creaturale, i diritti. Qualcosa bisogna fare con il dolore, come dice il grande poeta. Mi hai lasciato sola. E guardando fuori dal finestrino mentre una vecchietta mi parla e ricorda insieme a me quello che io non posso ricordare, i tempi, - non sono affatto fiera di essere ignorante - ma penso di poter riconoscermi, mentre trattengo il mio accento per non rompere l'incantesimo della confessione, mentre si bagnano gli occhi, vedo fuori posizionati i mega schermi, nei punti nevralgici, in alto, che fanno scorrere le notizie, e per quelle di obbligo di dominio comune, suona un fischietto, e allora bisogna ricordare che per ogni notizia messa in luce ce ne sono almeno due messe al bando, e dietro a queste ci sono almeno due banditi, ovvero due persone che giacciono senza difesa da qualche parte, oppure che qualcuno recintato dentro un porcile, è tenuto d'occhio da un aguzzino che scodinzola mentre ripete brevi litanie di derisione. Le vecchiette, strette alla borsa, vanno fino alla fermata di Buona Speranza, sperando che qualcuno faccia loro capire il senso in questo marasma di senso. Facci capire qualcosa, traducicelo, sbatticelo, fai che questa città torni ad essere un fiume, una risaia, un porto. Scendo dal tram e mi cala la pelle di lucertola fra i sampietrini, l'immagine senza enigma, ma tanto piena di appellativi altrui, da rendersi specchio spaventoso. Si, sono l'altro e continuo a ballare dentro, anche se a volte la forza è poca e il latrato immaginario che mi porto dentro trafigge la memoria. In fondo quello che mi ha fatto perdere fiducia nel cane di Alvin era la sua tendenza all'oblio, o alla rimozione, una specie di parassita che a colpetti deforma la realtà e rende banali, rende banale persino il perdono.
Cristo!, ma quanto amavo quel cane, borioso e splendido. Devo ammettere che la mia latente condizione luttuosa e il secernere digressioni e estraneamenti non aiutano per niente, le relazioni, e perciò mi ci vuole un po' a trovare il moto di spirito e ad entrare nel proverbio, si sa, lo straniero lo afferra, forse, dopo un tenace movimento di abbandono e attenzione, un empatico e silenzioso apprendimento. Torno a casa, meglio, mi aggiro guardinga, non sia mai che lo incontri, il cane di Alvin. Torno a casa, a due passi da dove la vita di un ragazzo è stata derubata, violentata, massacrata, l'11 marzo del '77. Dove ogni anno un letto di bottiglie di birra e di vino si riempie di rose e si è un po' meno sconfitti, grazie al ricordo. Ma la morte c'è, alita e ha il cranio di piombo. In altre forme, in altri volti. A Ferrara per esempio. A Genova per esempio. A piccoli passi si scava il discorso per un fratello, si risponde, si contesta, si denuncia, in ascolto, in modo irruente.
Non sarà sicuramente lo sguardo straniero dell'italiano a cristallizzarci, a lasciarci a ripetere come un giradischi vuoto, ma può essere la testa di uno che non conosco né mi conosce ma che c'è costantemente e sottrae. Ma non ci sgretoleremo. Crediamo possa accadere il contrario. Ora che è notte per tutti, visto la mancata energia, e le osterie devono chiudere, approfitto di infilarmi sotto le lenzuola, ascoltare il polacco e leggere in cinese. Ti ho lasciato solo anche io, ho tolto l'ala, ho emesso giudizi, ora che vedo svanire le frontiere, e che per fortuna qui un muro divisorio non c'è, penso che si possano mutare i confini. L'ultima volta che ti ho visto per caso, vomitavi sotto il portico, ci siamo guardati come due quasi sconosciuti, ma la mia mano non ha potuto negarsi la carezza sulla tua schiena grigia e rugosa. Non ci sono branchi ai quali io voglia appartenere, ma la violenza non si può cancellare, né gli uomini dimenticare. Ora che è buio e io posso sognare con un fiordo che, sradicato da una cartina, trasborda qui vivi anche i morti, c'è un pazzo che ha avuto la geniale idea di percorrere la città in macchina, per recitare con un altoparlante a pile storie semplici, letture, parole sensate che diventano armonico brusio in lontananza, in attesa della luce.


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MessaggioInviato: 08 gen 2008, 02:03 
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Mia Lecomte è nata nel 1966, italo-svizzera, e dopo varie residenze ora vive a Roma. Poeta, ma anche autrice per l'infanzia e di teatro, fra le ultime pubblicazioni si ricorda la raccolta poetica «Autobiografie non vissute» (Manni) e il libro per bambini «Come un pesce nel diluvio» (Sinnos). Svolge attività critica ed editoriale nell'ambito della comparatistica, e in particolare della letteratura della migrazione: è curatrice dell'antologia «Ai confini dei verso. Poesia della migrazione in italiano» (Le Lettere) e con Luigi Bonaffini «A New Map. The Poetry of Migrant Writers in Italy» (Green Integer). Collabora a «Le Monde Diplomatique», inserto mensile del manifesto.


Uno scrittore (tra parentesi)
Mia Lecomte



(Non ho che da farmi coraggio, e provare a parlarne). È così che mi guadagno da vivere, e trascorro il mio tempo (che pure rimane tanto, lo so, si presta ad essere impiegato ancora) tutte le mie giornate. Non è la mia massima aspirazione (mi sarei augurato ben altro) ma è pur sempre un ruolo (un compito) di una qualche utilità, e non ho tradito la mia vocazione naturale. Quando qualche anno fa (mi sembra ieri) me l'hanno proposto sono rimasto (a dire la verità) sconcertato: non sapevo (è probabile che nessuno lo sospetti) che esistesse un impiego del genere (con tutto quello che ne consegue). E ho accettato, addirittura di buon grado (e poi cos'altro mi sarebbe rimasto da fare?).
Ero un uomo (così detto) di mezza età (ora sono ben oltre, un discreto tre quarti) e non ero ancora riuscito a realizzare (forse soltanto sperare) niente di quello in cui avevo creduto (o mi avevano fatto credere, è lo stesso). E allora la proposta mi è sembrata subito piuttosto appetibile (o perlomeno non così indecente). In fondo poteva essere solo l'inizio (adesso so che non è così) e c'era pur sempre qualcuno che aveva bisogno di me (a volte è gratificante).
Cosa avevo fatto fino a quella mia mezza età? (togliendo l'infanzia, con tutte le sue vicissitudini inutili e tragiche). Studiato (malamente), bevuto (molto, pesante), mi ero drogato (meno, leggero), non mi ero mai innamorato (non sono un tipo passionale) e per questo avevo sposato la donna giusta (una qualsiasi). Niente figli (c'era tempo ancora), né amici (ancora più tempo), né fissa dimora (sono un migrante in pantofole, uno straniero mancato, sempre stabile al confine di luoghi che avrebbero dovuto appartenermi). Con mia moglie conducevamo una vita tranquilla (ce lo dicevamo) con lunghe giornate dedicate alle chiacchiere leggere, al cinema, e al sesso (cosa di meglio). E alla lettura. Un lettore onnivoro sono sempre stato (un suino librario), mi interessa di tutto, in tutte le lingue madri (matrigne, sorelle, amanti, nonne) che parlo, in qualunque modo sia scritto (una versatilità di lettura che mi è tornata utile).
Ma veniamo al dunque (il problema è capire dove sia): è così che mi guadagno da vivere (durare). È successo tutto senza preavviso (una sorta di colpo di fortuna senza fortuna). Un pomeriggio d'inverno (finita irrimediabilmente la luce). Chiamano a casa e non c'è nessuno, né io e mia moglie (finiti gli umani). Allora lasciano un messaggio nella nostra segreteria telefonica (voce preregistrata di confezione, onestamente impersonale): hanno urgenza di parlarmi, ma non riesco a decifrare il nominativo di riferimento che lasciano: edizioni non so che cosa (e chissà dove). Richiameranno (o vuole dire che non era il caso). Due giorni dopo si rifanno vivi (era il caso, almeno per loro). Le edizioni precisate fissano un appuntamento per la settimana successiva (il luogo ora è certo). E io trascorro la settimana, convinto del solito (a metà fra le peggiori aspettative e le migliori speranze).
Mi sono dimenticato di dire (lo dimentico sempre) che oltre alla conversazione, al cinema e al sesso, e alla lettura, ai quei tempi (anche ora, purtroppo) mi dedicavo alla scrittura (la prima cosa a cui mi sono dedicato, in verità, dall'inizio del mio grande vuoto scandito da luoghi). Una dedizione superflua, in cui ho sempre riposto vaghe ambizioni cinematografiche (nel senso più hollywoodiano di qualcuno che mi legge per caso e prima dei titoli finali sono già in vetta ad ogni tipo di classifica), che insieme a tutte le altre, ovviamente, nel giorno di quell'inaspettato appuntamento erano fallite (in quello del messaggio registrato quasi). Ma le ambizioni sono come le parole, una vale l'altra alla fine, senza peso (specifico), e dove credi che abbiano lasciato il segno del loro gravoso covare negli anni (tuoi e degli altri), trovi solo una fredda superficie perfettamente liscia, allineata al resto (inclinata).
Insomma, quello scrittore che non si credeva più tale, che non si era mai creduto tale (che non aveva mai creduto, in generale, troppo faticoso) varcava la porta delle edizioni che l'avevano cercato inaspettatamente con una dignità rispolverata per l'occasione (con l'età gli andava un po' stretta). A venirgli incontro era una segretaria alta e bionda (prevedibile), di una gentilezza impeccabile (lucida come la targa sotto il campanello a cui aveva suonato), che lo faceva accomodare in una piccola sala d'attesa con un tavolino di vetro ingombro di riviste a cataloghi (tutti delle edizioni, altrimenti a che scopo). Dei bei cataloghi, interessanti, con ottime pubblicazioni (anche il suo autore preferito, una prosa assolutamente originale, innovativa). Alle pareti premi e locandine, e qualche foto di scrittori famosissimi (i mostri sacri del secolo, gli unici con una faccia adatta a competere con la propria opera).
Se ne stava piegato in una poltrona di panno verde (speranzoso), a pensare alle commissioni che lo aspettavano nel pomeriggio (tutte dietro la casa attuale, non si azzardava mai a sconfinare dal quartiere) quando qualcuno - non più la signorina di prima, un'altra altrettanto specchiata (uno sfoggio deliberato di personale ideale) - lo veniva a chiamare. Prego, mi vuole seguire? Certo, come no (sono qui per questo, cioè non proprio, spero che non mi porti fuori strada). E un lungo corridoio con molte porte chiuse, l'ultima a destra ad aspettare me (chissà da quanto).
Quando sono entrato ho subito notato che il verde era cambiato in blu (un'evoluzione cromatica) e bluette (regressa). E che la scrivania era troppo grande per l'omino pelato che vi sedeva dietro (un fantolino abbandonato sul sagrato di una chiesa). Poi non ho più avuto tempo per notare nulla, concentrato sulla proposta che mi veniva fatta. Perché io? (un conoscente comune aveva parlato di me e della mia dedizione superflua in termini lusinghieri). Perché io? (e di una mia cultura assolutamente eterogenea e superficiale). Perché io? (e del mio tempo libero). Perché io? (e della mia capacità di non stupirmi mai di niente). Ero sconcertato e stupito (invece), e anche molto divertito (quest'ultimo è il motivo principale per cui ho accettato).
Ridevo tra me sulla strada del ritorno, in autobus (verso il mio quartiere, al sicuro). Chissà quando lo racconto a mia moglie... Sì, ma solo a lei. Mi è stato vietato di dirlo a chiunque altro, pena lo scioglimento del contratto (abbastanza generoso, lo ammetto). Ma poi a chi altro lo potrei raccontare? E a cosa mi servirebbe raccontarlo? E gradatamente l'incredulità allegra (e anche un po' orgogliosa, perché no) lasciava il posto a una stanchezza senza remissione (la mia stanchezza), un buco umido scavato proprio sotto le fondamenta della coscienza (per l'oscurità non se ne vede il fondo).
E così, arrivato a casa, a mia moglie non dicevo più niente (ho acceso una sigaretta e mi sono seduto in televisione). E ancora non sa niente (né mai lo saprà). D'altronde non avrebbe motivo per nutrire alcun sospetto, la mia quotidianità scorre sempre identica (e poi chissà quanto durerà ancora, non è possibile saperlo, se dovrò mentire ancora per molto). Certo, ci sono più soldi, ma i nostri conti bancari rimangono separati e io non ho mai aumentato le uscite (contengo per indole le spese).
Tutto tace, insomma, all'apparenza (che è tutto). E (ma) da anni ho un nuovo lavoro (e la stessa casa). Lo svolgo diligentemente tutte le mattine dalle sei alle nove (tanto mi sveglierei comunque per l'insonnia senile) e qualche volta anche un'oretta il pomeriggio (dopo la siesta). Mia moglie pensa che io scriva (pudichi sfoghi post-post-post) e mi lascia tranquillo. E io mi dedico con una certa maestria (ci vuole, non è un impegno da poco) a scrivere (scrivo infatti) i tra-parentesi dell'autore più importante della casa editrice, il mio scrittore preferito (perché non se li scrive da sé? Non me l'hanno spiegato, e in verità non ho mai sentito l'esigenza di saperlo). Col tempo sono diventato piuttosto bravo, perfettamente integrato con la sua prosa pensiero (la sua seconda voce, a cappella), fuso con la sua musica (perfettamente in controtempo). E forse, poco a poco, sto cominciando a sperare anche in altro (comincia a non bastarmi). Ora che mi sono tanto specializzato (incisivizzato) forse potrei passare a qualche nuovo autore (uno alla volta) della casa editrice (chissà le altre...). Un giorno di questi dovrò trovare il coraggio di parlarne con i responsabili (quelli che si sono manifestati tali). Comunque non c'è fretta, per ora va bene così, conservo un pochino di tempo per dedicarmi anche alle mie cose (una specificità pur compromessa nel profondo). E poi chissà che i restanti scrittori della casa editrice non siano già impegnati (accompagnati), che altri non siano stati assunti, per altri, con le mie stesse mansioni (magari non necessariamente per intenzionali tra parentesi, di cui è particolarmente ricco il mio autore). Altri esattamente come me, in tutto e per tutto (fuorché nelle mansioni, forse, ci sono molte altri aspetti del periodo).
E chissà se addirittura non ci siano già altri che subentrano nella prosa del mio stesso autore? (altri esattamente come me, appunto, fuorché nelle mansioni. Ci sono molti altri aspetti del periodo, appunto). Chissà se il mio autore esiste realmente, e non sia piuttosto il risultato di un intelligente (o solo naturale) assemblaggio di costrutti. Se esistono gli scrittori (e i loro libri).
Esiste almeno un solo scrittore? (e il suo libro completo?) Tutte domande inutili. Non è dato di saperlo, da contratto (una postilla in grassetto, in fondo).
Tra parentesi.


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MessaggioInviato: 08 gen 2008, 02:05 
Sanatoria

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Made in Italy continua (non ci speravo!!!!) anche la settimana prossima :)) significa che è andato bene....

Domani Saba Anglana :))) compratelo, Saba è una G2 che fa tante cose, dobbiamo supportarla


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MessaggioInviato: 08 gen 2008, 16:07 
G2 Integrato

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io ho comprato tutti i numeri fino ad ora e mi sono piaciuti. Il mio edicolante mi ha chiesto stupito "non sei micca diventato comunista per caso?" :lol:


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MessaggioInviato: 08 gen 2008, 16:17 
Sergente di ferro
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(hi! hi! hi! :P )


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 Oggetto del messaggio: :)))))
MessaggioInviato: 09 gen 2008, 01:49 
Sanatoria

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Mi sa vi faccio diventare adepti....ho proposto altre serie :)) e mi hanno detto di si. Ma non vi dico gli argomenti.....prima devo capire se la cosa si concretizza. Domenica ve lo anticipo....il racconto sarà di una ragazza italiana emigrata....non nell'800, ma sei anni fa....un cervello in fuga. Ha scritto del casino con il Permesso di soggiorno......FICO, VE? Poi mi direte...

Bravo ISSI e grazie anche a tutti voi, non credo questa idea mi sarebbe venuta se non ci fosse una battaglia comune che stiamo tutti, ognuno a modo suo e insieme, facendo. Shukran amici


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 Oggetto del messaggio: Saba Anglana (Il Manifesto 08/01/08)
MessaggioInviato: 09 gen 2008, 01:51 
Sanatoria

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Saba Anglana è nata a Mogadiscio da padre italiano e madre etiope, ma ben presto si è dovuta trasferire con la famiglia in Italia a causa dei problemi politici del Corno d'Africa. Dopo la laurea in lettere, ha lavorato in diverse case editrici. Tanta letteratura ma anche musica. Dopo aver cantato in progetti in lingua inglese, è stato l'incontro con sonorità africane a ricucire quel filo spezzato con la prima parte della sua vita. «Jidka (The line)» è il suo primo disco da solista, cantato in lingua somala.

Fall, il mio nome come una caduta
Saba Anglana


Brucio i calli sotto il palmo della mano, il fuoco dell'accendino nemmeno lo sento, fisso la fiamma che asciuga la pelle spessa, indurita. Tra poco suono. Il calice sputerà fuori le sue tre anime sotto i miei colpi secchi. Canterà l'albero che gli ha dato il legno, sibilerà la capra che ha donato la sua pelle e griderà il mio spirito di djembefola. Che ne sanno loro, mi aspettano qui, dietro il palco, all'ingresso dei camerini, per rimandarmi da dove sono venuto. Meglio così, sono stanco di cadere, di aspettare l'impatto, di farmi piccolo piccolo per strada, per non attirare l'attenzione, per non essere notato. Modou Ibra Fall non esiste, i suoi passi sono come quelli di un gatto nero dal pelo lucente che tutti ignorano per non essere costretti a cambiare strada. «Sparisci, noi non ti abbiamo visto», l'altra sera mi restituiscono quella specie di documento senza valore e mi lasciano andare, forse per farmi un favore, tanto sono pulito. Nemmeno fumo le sigarette, io. Alcol non ne parliamo, è veleno come la carne di maiale. Oggi però mi è andata male, prima o poi doveva succedere: con il permesso di soggiorno scaduto, un foglio di via è come un maledetto biglietto di sola andata, nessuna possibilità di ritorno, nemmeno per un musicista come me.
Il mio amico Ghebir me l'aveva detto: «Trovati una ragazza italiana e sposatela, è l'unico modo per diventare libero». Ma lui è stato fortunato, si è sposato per amore, io una donna non la sposo per i documenti. Sono stato sempre attento a non dare nell'occhio, ma cosa dovevo fare? Il locale è vicino al centro. Scendiamo dalla macchina e per sgranchirmi faccio due passi; poi mi appoggio ad un muretto e aspetto gli altri poco più avanti. Quando quelli della volante ci fermano, mi fanno mille domande sul perché fossi distaccato dal resto del gruppo. «Ve l'ho detto, sono con gli altri, stasera suoniamo, camminavo solo più avanti...». Loro pensano che i ragazzi stiano cercando la roba e che io, l'unico straniero, sia il pusher. Mentre ci perquisiscono sento la mia caduta senza tonfo, questa maledetta vertigine che ormai m'impedisce di prendere anche il treno da solo; mi devo far accompagnare, come i bambini, perchè ogni spostamento è un rischio e se non sono in compagnia di qualche amico magari italiano, mi sento come un bersaglio mobile, non nero, fosforescente, con il cuore in gola tutte le volte c'è una divisa qualsiasi.
A Genova è un po' diverso, non mi fermano perché ormai mi conoscono, mi vedono passare spesso con il mio strumento, gli faccio simpatia, sanno che non do problemi, che la musica è il mio mestiere, che magari sto andando dai miei allievi e che abito proprio lì, al secondo piano di quel palazzo strozzato tra due vicoli che puzzano di piscio. Quando ci arrivai da Dakar, tre anni fa, mio zio che era in Italia da un sacco di tempo mi diede un borsone gonfio di dvd e due pile così di cd: «C'è una costa lunga decine e decine di chilometri» dice lui, «vatti a guadagnare i soldi con un lavoro sicuro, lascia perdere questa storia della musica che ti sei messo in testa». Lavoro sicuro?! Neanche si fosse trattato di un ufficio. Mi hanno beccato il primo giorno. Sequestrato tutto. Forse ce l'ho scritto in faccia che quella vita non fa per me. Anche lo zio se n'è convinto.
«L'arte ti porta da ogni parte», dico io. Una settimana fa, con i ragazzi, abbiamo suonato a Gaeta per un festival davanti al sindaco, i vari assessori e una marea di gente che è andata letteralmente fuori di testa, tutti che ballavano, ruotavano il bacino e saltavano sudati come bianchi impazziti, comprese le mogli in tiro degli assessori. Eravamo ospiti in un albergo da sogno, di quelli che non le espongono neanche le stelle. Abbiamo passato tutta la giornata prima del sound-check in piscina a schizzarci come dei bambini. Mi sono fatto una foto con gli occhiali da sole e il gigantesco bicchiere di succo di frutta che mi hanno portato, con tutti quegli ombrellini di carta che spuntavano tra la cannuccia e gli spicchi d'arancia. Ho pensato alla faccia che avrebbe fatto lo zio che mi voleva sulle spiagge a vendere elefanti d'ebano come tutti i fratelli. Io no. Io sono un musicista. E la mia arte mi porta da ogni parte.
La band ha un tour europeo di dieci date tra Londra, Zurigo, Berlino, Rotterdam, Arnhem e Parigi, mi sembra. Ma ormai i controlli, soprattutto in Svizzera e Francia, sono severissimi. E invece di beccarmi a qualche frontiera, mi vanno a fermare proprio qui a Torino, davanti al locale! Eppure chiunque, anche i bambini potrebbero riconoscere un vero spacciatore. Invece di qualche grammo di quella robaccia in più, mi hanno trovato con un maledetto documento in meno. Un pezzetto di carta. Mi spediscono indietro. In fondo, l'ho già detto, mi sento stanco. E forse a quell'agente non andavo a genio, oggi - chissà - gli girava storto, avrà litigato con qualcuno prima di entrare in servizio... non so; come una roulette, la mia caduta dipende anche da questo.
Avevo il dossier pronto, cioè i ritagli dei giornali con la mia immagine, gli articoli, le interviste di questi ultimi due anni di musica: altra carta, ma con questo materiale, diceva una mia amica che ha parlato con quelli del consolato, avrei potuto provare la mia attività; un tentativo, certo, ma un musicista secondo un principio universale ha il diritto e il dovere di portare la sua musica ovunque, senza barriere. «L'arte ti porta da ogni parte», no?
La mia corsa finisce qui, dopo questo concerto che mi hanno concesso di fare, prima di mettermi su un aereo che mi ricaccerà nel buco da dove sono uscito. Mi controllano a vista. Suonare però mi farà stare meglio. Teso come la pelle di capra, sono pronto come lei; ogni volta che colpirò il bordo della membrana con le dita unite dall'indice al mignolo, il suono si staccherà secco come l'aria di cortile che s'infilava nelle mie narici dilatate di ragazzo. Prenderò poi a battere con la parte della mano compresa tra il palmo e la terza falange così i colpi diventeranno acuti, penetranti, divideranno veloci l'aria come proiettili che arrivano dritto in pieno petto, uno dopo l'altro. Allora piomberò in mezzo al tamburo con la mano al livello della base del polso e il tono si farà profondo, più vicino alla nota grave del cuore che pulsa al centro di tutto il ritmo. Crescerà l'intensità e le labbra saranno strette nella smorfia dello sforzo, ma le mie mani nemmeno le vedrai: il tempo esploderà in sinfonia d'aria secca, narici aperte, proiettili bang bang, testa cuore petto tum tum, ahhh, tum tum bang! Ecco, sento rispetto attorno a me. Rispetto ed esaltazione. Manciate di secondi in cui la musica è tutto. Terra mia senza carta. Modou Ibra Fall torna ad esistere.
Già da un po' di tempo mi sembra di suonare, come una vera partitura, la mia caduta. Una musica scritta da altri. Lo so, picchierò con rabbia perché con rabbia voglio ancora quel rispetto. Esploderò più forte i miei proiettili, tra poco ascolterai il suono dell'impatto che da sempre attendo.
Fall, Fall, Fall djembefola, il tuo destino nel nome, cadrai danzando come una foglia prosciugata del suo colore, che si stacca dall'albero e prima di toccare terra, plana e si contorce in un percorso che non si ripeterà mai più. Stasera, la mia caduta come un ricamo nell'aria secca.


Ultima modifica di balambalis il 09 gen 2008, 01:53, modificato 1 volta in totale.

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 Oggetto del messaggio: Cristina Ubax Ali Farah (8/01/08)
MessaggioInviato: 09 gen 2008, 01:53 
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Ubah Cristina Ali Farah è nata a Verona nel 1973 da padre somalo e madre italiana. È vissuta a Mogadiscio dal 1976 al 1991, quando è stata costretta a fuggire a causa della guerra civile scoppiata nel paese. Si è trasferita per alcuni anni a Pécs, in Ungheria, e poi a Verona. Dal 1997 vive a Roma. Nel 2007 è uscito il suo primo romanzo «Madre Piccola» (Frassinelli).


Af Dabeyl, ovvero Bocca di vento
Ubah Cristina Ali Farah


Oh Af Dabeyl, quanto mi si stringe il cuore quando ti penso,
tra i freddi tulipani d'Olanda
Quando ripenso al pensiero coniato per te, che ogni vita ha un senso, anche se sarebbe potuta andare meglio.
Siamo tutti figli dell'onda.
E ricordo quando dicesti che forse, il ruolo dell'intellettuale somalo, veramente non ti si addiceva, che saresti stato meglio a condurre mandrie di dromedari al nord, nel tuo piccolo paese.
Af Dabeyl, Af Dabeyl, quando nascesti a Eyl, il mare era calmo e la luna era crescente.
Un uomo che nasce con tali segni ha un grande destino.
Lo dissero tutti nel piccolo paese.
Andasti nella capanna ancora piccino.
Con il carbone bagnato scrivevi i versetti del Corano sulle tavole di legno.
E da lì risuonava la tua voce melodiosa. Come il vento fluivano le parole. Da allora sei Af Dabeyl.
Questo raccontò Amina a tua figlia, adolescente madre, più forte di te che sei uomo.
Ed ella mormorò il tuo nome: padre ora ti riconosco.
Ancor piccola le narravi di quando a piedi nella savana, raggiungevi la scuola per insegnare ai bambini a leggere.
Di quando incontrasti il leone e pietrificato lo osservasti attraversare il tuo cammino.
Forse ti riconobbe guardandoti negli occhi, questo è l'intellettuale somalo, pensò.
Ma padre, queste sono storie di altri tempi, non si vedono più leoni da queste parti. No, non si vedono più.
Ma non siamo mai stati nelle terre del nord, che ne sappiamo di come sono cambiate le cose. / Forse lì i leoni ci sono ancora.
Bella storia per spaventare i bambini che vanno in giro da soli!Tu, Af Dabeyl, almeno avevi un fratello gigante.
Lo chiamavano tutti Fudde, il possente, e quando attaccavi briga ti nascondevi dietro le sue spalle.
Da quando ti eri rotto la caviglia, tutti ti curavano di più.
Trascini ancora il piede sinistro.
Tuo padre, Xush il chiaro, aveva pensato bene bloccandola con un ramoscello legnoso.
Hai sempre amato tanto Xush il chiaro, finita l'università in Italia, mentre molti preferivano restare, tu dicesti che dovevi tornare, per tuo padre, per il tuo paese. / Poi dicono terra-madre.
Avevi solo ventisette anni e il povero vecchio era quasi centenario.
Morì quand'eri in carcere.
Ricordi quelle bruciature? Tuo padre te le fece per ricordare.
Chi ha mandato il malocchio ad Af Dabeyl che si contorce per i crampi alla pancia?
Forse una madre gelosa nel vedere tanta prodezza nel parlare?
Af Dabeyl... controlla la parola.
Almeno all'inizio era il senso di giustizia, ora è solo la disperazione.
Dicesti: tornerò per cambiare il mio paese, c'è sempre bisogno di gente come me.
Certo.
Bella maschera usare un oppositore politico per dare una parvenza di democrazia.
Che lavoro fai?
Il consulente economico.
Ma per chi?
Io non rubo, dicesti.
Ti portavano in giro nei convegni internazionali per dar mostra della tua cultura, per far vedere che la Nazione aveva gente valida.
Ti prestasti al compromesso. Perché già ti rodeva il cancro dell'alcol. Almeno quando ti mandarono tredici mesi in prigione per aver complottato contro il governo non bevevi più. Eri un estremista islamico.
Quante contraddizioni. Durò poco. Era stato un modo per sopravvivere.
Ora come riuscirai a sopravvivere?
Che euforia quando bombardavano la città, se ne va il tiranno, morte ad Afweyne, questo è il momento che ho aspettato da vent'anni.
Ma il tuo paese non aveva più bisogno di te.
Il mare ti spinse fuori.
E ora l'hanno reso più salato le lacrime che hai pianto in esilio nelle fredde acque del nord.
Oh, Af Dabeyl, scintilla agile e lucente, volevi diventare una stella, ma brillasti invano.


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